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Economia
Banda ultralarga, Italia Cenerentola. Rete unica, partita con troppi attori

 

Il governo tiene molto al dossier “digitalizzazione”. E questo è comprensibile, ci mancherebbe, non foss’altro perché una parte importante dei fondi del Next Generation Eu dovranno obbligatoriamente essere indirizzati a progetti che abbiano una forte spinta innovativa. Però la partita è ancora all’inizio e ci sono già molte gatte da pelare. Prima, un pizzico di storia. Nel 2010 l’Europa si dota di un’agenda digitale che impone a tutti i paesi membro di arrivare ad avere – entro la fine di questo 2020 – il 100% delle connessioni almeno a 30Mbit/sec di velocità e il 50% ad almeno 100 Mbit/sec. Che cosa serve per ottenere questi risultati: fibra ottica nelle grandi città (a Milano si è già vicini al giga al secondo) e nuove connessioni Adsl ultra-veloci nelle altre parti del Paese che hanno una maggiore complessità anche dal punto di vista territoriale.

Un obiettivo ambizioso reso ancora più urgente dalla pandemia di Coronavirus che ha confinato una fetta importante della popolazione a lavorare da casa. A maggio, mentre iniziavano ad allentarsi le prime misure del lockdown, si è scoperto che gli operatori di rete per reggere la richiesta di connessioni, hanno dovuto abbassare la velocità media, tanto che perfino Netflix e Youtube hanno ridotto il “bitrate” (cioè la qualità) dei loro filmati per non appesantire internet. Alla fine di settembre un report mondiale sulla velocità di connessione ci inchioda alle nostre responsabilità: abbiamo una rapidità media di 23,18 mega al secondo, ovvero inferiore di un mega rispetto a quella mondiale che però prende in considerazione anche Paesi come il Sud Sudan che stanno vivendo momenti drammatici tra guerre e carestie. In Europa occidentale si naviga mediamente a oltre 81 Mbit/sec, un livello per noi davvero irraggiungibile.

Evidentemente, il piano ristagna se si pensa che secondo il sito che monitora l’evoluzione della Banda ultralarga, ad oggi solo 1.031 comuni hanno completato la connessione ultraveloce, mentre per la fine del 2022 si dovrebbe arrivare alla quota di 6022, in ritardo di (almeno) due anni sulla tabella di marcia. Il premier Conte ancora quest’estate ricordava che questo progetto di digitalizzazione dell’Italia è vitale per riuscire a migliorare una situazione che produrrebbe (secondo i piani dell’esecutivo Renzi che, nel 2014, aggiornò il programma) una crescita annua del 3% del pil. Siamo quasi alla fantascienza.

Il problema è che ancora una volta l’Italia sconta una sindrome da Cenerentola che sta diventando difficile da spiegare. Enel, che è tra i leader mondiali dell’elettrificazione, uno dei player più importanti e – soprattutto – più all’avanguardia, aveva già da tempo avviato un’opera parallela di cablatura e rinnovo dei contatori che avrebbe permesso di ottimizzare i cantieri e portare la fibra potenzialmente in ogni casa. Poi però qualcosa si è rotto: Starace, che ancora ieri ricordava con orgoglio l’impegno dell’azienda nell’aver dato all’Italia una spinta alla rete, è stato “costretto” da Mef e Mise a cedere il 50% di Open Fiber per fare cassa e concentrarsi su altri prodotti.

Proprio il governo, negli ultimi tre mesi, ha mostrato un’inclinazione all’intervento diretto che non dev’essere piaciuto in Europa. Tre mesi fa ha agito direttamente durante il consiglio di amministrazione di Tim per “stoppare” l’offerta del fondo Kkr nella neonata FiberCop. Lunedì sera, alla vigilia della presentazione del nuovo piano di Enel ha chiesto chiarimenti a Starace in merito alla quota dell’azienda in Open Fiber. La fretta è tanta, la voglia di capire che cosa succederà anche. L’ex monopolista dell’energia elettrica ha da tempo annunciato di voler dismettere la sua quota in Open Fiber, anche se ancora non si è capito come. Proprio Open Fiber, insieme a FiberCop, dovrà creare il soggetto unico per la rete che vedrà (almeno) cinque player: Cdp, Tim, Kkr, Fastweb, Macquarie e, forse, la stessa Enel. Sì perché se inizialmente sembrava che l’intero 50% di Open Fiber detenuto dall’azienda guidata da Starace sarebbe stato ceduto, oggi prende sempre più corpo l’idea che si tenga almeno un 10%. Il ceo ha detto che “è questione di settimane” per arrivare alla soluzione, ma intanto il tempo scorre.

Rimane poi da capire quali saranno gli assetti del nuovo soggetto: sarà Tim a menare le danze, all’indomani della presentazione di un bilancio con un utile in crescita? O sarà ancora una volta la Cassa a esprimere il maggior numero di consiglieri e quindi a decidere le strategie? Per intanto, c’è da capire che cosa farà l’Europa: l’Antitrust continentale ha già fatto intendere chiaramente che non vuole conflitti d’interesse e che una rete a maggioranza Tim (cioè il principale operatore, che già aveva in mano la gestione dei “doppini” di rame) non sarebbe digerita. L’azienda guidata da Gubitosi, però, non sembra sentirci e vorrebbe andare avanti per ottenere il 51% della gestione. La soluzione potrebbe essere che Cassa Depositi e Prestiti, pur in minoranza, esprima una sorta di “golden share” che le farebbe avere un numero di consiglieri più elevato di qualsiasi altro socio. Il mercato, per ora, non ha mostrato grandi scossoni né in un senso né nell’altro, con il titolo di Tim che naviga ancora intorno ai 38 centesimi per azione.

In tutto ciò, nelle scorse settimane si è anche registrata qualche scaramuccia tra il numero uno di Tim e quello di Enel. Gubitosi a metà novembre si è lasciato andare a una frecciatina verso il suo omologo: “Ad agosto eravamo pronti a negoziare con Enel sulla quota di Open Fiber. Poi è arrivata l’offerta di Macquarie che ha complicato un po’ le cose. Enel ha chiesto tempo per esaminarla. Sono passati mesi, a questo punto l’avranno imparata a memoria”. E Starace, via Twitter, ha risposto laconicamente: “Quando è cotto lo stracotto”?

Infine, c’è un ultimo dettaglio interessante da analizzare: Vivendi è oggi il primo azionista di Tim, di cui detiene il 23%. Ha, ovviamente, già dato l’assenso al piano di rete unica perché sa che è un progetto estremamente profittevole. Ora: a beneficiarne, ancora una volta, potrebbe essere Berlusconi. Il quale, dopo aver incassato l’altolà del governo al golpe francese nel cda di Mediaset, potrebbe ottenere una nuova vittoria con un Bollorè meno attratto dal consiglio di amministrazione del biscione e più incline ad andare a “vedere” che cosa succede alla rete italiana. E in un momento in cui Conte potrebbe aver bisogno di nuove alleanze per ricorrere al fondo salvastati, un Silvio contento farebbe sicuramente comodo…

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