Caso Tod's, "caporalato nell’alta moda? I controlli ci sono eccome, ma serve equilibrio tra imprese e lavoro" - Affaritaliani.it

Economia

Ultimo aggiornamento: 15:31

Caso Tod's, "caporalato nell’alta moda? I controlli ci sono eccome, ma serve equilibrio tra imprese e lavoro"

L’avvocato Giorgio Manca (DWF Italy) spiega la rivoluzione in atto nella filiera del lusso, tra nuove leggi anti-caporalato, controlli serrati e la sfida della vera trasparenza nel Made in Italy

di Rosa Nasti

Caporalato e alta moda: la sfida per salvare il vero Made in Italy. Intervista

Sotto i riflettori del lusso, qualcosa si è incrinato. Le inchieste che hanno travolto giganti come Armani, Loro Piana e Tod’s hanno scoperchiato il lato oscuro della moda italiana: subappalti incontrollati, manodopera sfruttata e una catena produttiva sempre più opaca. Ora il governo prova a correre ai ripari. Il ministro Adolfo Urso ha convocato un tavolo urgente con le associazioni del settore, mentre il Senato ha dato il via libera alle nuove misure anti-caporalato per riportare legalità e trasparenza al centro del settore.

Intanto da Bruxelles negli ultimi giorni è arrivata un’altra scossa: la Commissione Europea ha inflitto una maxi-multa da 157 milioni di euro a Gucci, Chloé e Loewe per aver imposto ai rivenditori di non fare sconti, mantenendo i prezzi gonfiati e uniformi.  Tra nuove leggi, controlli a tappeto e la corsa alla "certificazione di filiera", la moda italiana si trova davanti a un bivio: continuare a brillare solo in vetrina o cambiare davvero pelle. Ne abbiamo parlato con l’Avvocato Giorgio Manca, Partner e Co-Head of Employment di DWF (Italy).

Il Senato ha approvato il pacchetto anti-caporalato per la moda e il tessile. Si parla di difesa del made in Italy e di un cambio di paradigma. Ma cosa cambia, concretamente?

La misura al vaglio del Senato introduce un sistema di certificazione volontaria della filiera, affidato a revisori legali, con l’obiettivo di verificare la correttezza fiscale, contributiva e giuslavoristica di ogni anello della catena.

È una misura che si pone in continuità con la norma introdotta a marzo 2024 (con il d.l. n. 19/2024), che ha profondamente modificato la disciplina giuslavoristica degli appalti. Ai sensi del nuovo comma 1bis dell’art. 29 della Legge Biagi, le imprese committenti (quindi, ad esempio, le case di moda) non sono più solo responsabili in solido per le retribuzioni e i contributi dovuti dagli appaltatori ai lavoratori impiegati nell’appalto, ma sono tenute a verificare che ai lavoratori venga riconosciuto un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali più rappresentative. È una rivoluzione che ha portato con sé notevoli cambiamenti nei modelli organizzativi della filiera del lusso.

Le inchieste sullo sfruttamento nella moda si moltiplicano, ma il sistema non sembra cambiare. Dove si inceppa la macchina e perché il problema persiste?

Molte aziende virtuose sono già dotate di ottimi sistemi di presidio sulla filiera, altre ovviamente si stanno attrezzando. Da un punto di vista tecnico, non è sempre così semplice verificare la compliance giuslavoristica, tenuto conto che ci sono diversi contratti collettivi potenzialmente applicabili dai player della filiera. In Italia, stante l’inattuazione della seconda parte dell’art. 39 della Costituzione, non esistono contratti collettivi di settore con efficacia erga omnes.

È un discorso complesso, legato al tema, ancora non del tutto risolto, della rappresentatività sindacale. Inoltre, le aziende devono dotarsi di sistemi di presidio spesso ad alto contenuto tecnico-professionale: le violazioni giuslavoristiche non sono sempre così evidenti e occorre procedere con articolati processi di due diligence sui fornitori.

Le nuove norme non rischiano di spostare la responsabilità dalle grandi firme ai subappaltatori. In una catena così frammentata, chi controllerà davvero i controllori?

Gli enti (ispettorati del lavoro e INPS, principalmente) sono in prima linea nelle verifiche. Anche le procure sono molto attive nella verifica della corretta applicazione della normativa giuslavoristica. Quindi i controlli ci sono, eccome. Io credo che il sistema della Moda stia tendendo ad una selezione naturale dei fornitori e che, nel breve periodo, questa rivoluzione copernicana della filiera sarà completata.

La certificazione di filiera proposta dal Mimit può essere una vera garanzia di trasparenza o rischia di ridursi all’ennesima mossa di facciata?

A mio avviso la certificazione è una soluzione interessante per rendere maggiormente oggettiva la compliance aziendale. Chiaro che bisognerà fissare criteri inequivocabili per il rilascio della certificazione, altrimenti si torna al punto di partenza.

Il cosiddetto "Salva Tod’s" punta a proteggere la reputazione del made in Italy. Ma non c’è il rischio che la tutela dell’immagine prevalga su quella del lavoro?

Occorre trovare un punto di equilibrio tra la salvaguardia delle imprese e la tutela del lavoro. Credo che le norme recentemente approvate vadano però in questa direzione.

Urso parla di difesa della reputazione del made in Italy. Ma quanto può valere un marchio se dietro la vetrina del lusso restano condizioni di lavoro indegne?

Senza imprese non c’è lavoro. Ma i lavoratori hanno diritto ad una retribuzione in linea con l’art. 36 della Costituzione, ovvero adeguata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e, in ogni caso, idonea a garantire loro un’esistenza libera e dignitosa.

Credo che il Made in Italy abbia una reputazione costruita con anni di eccellenza, avendo contribuito fortemente alla crescita del nostro Paese. Ci sono state delle falle e bisogna assolutamente intervenire, ma non generalizzerei perché ci sono tante imprese che rispettano le regole (per quanto non siano sempre così chiare).

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