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Economia
Cina, barriere contro le aziende di Pechino. Anche Merkel e Macron si muovono

Proprio mentre Donald Trump concede a Pechino 90 giorni di tregua prima di far scattare nuovi dazi per cercare di trovare un’intesa che consenta di eliminare del tutto barriere al libero scambio da entrambi i lati del Pacifico (e in prospettiva in tutto il mondo, perché Trump è un mercantilista e il suo obiettivo ultimo è ridurre se non azzerare gli squilibri commerciali rimuovendo barriere e vantaggi), altri paesi sono sempre più tentati dalle sirene del protezionismo, vuoi per motivi tattico-elettorali che per scelta strategica. Finora Trump ha imposto dazi su 267 miliardi di dollari di import cinese, dazi che saliranno al 25% se non si troverà entro marzo un accordo.

Un passo in avanti sembra rappresentato dall’annuncio fatto dallo stesso Trump di una prossima rimozione dei dazi cinesi sulle auto importate dagli Usa (un 25% che si somma al dazio “base” del 15%, alzando così al 40% l’imposizione contro le importazioni americane). Pechino però non fa paura solo agli Usa e solo per motivi commerciali: l’obiettivo di Xi Jinping, ormai divenuto una sorta di presidente a vita, è di sfruttare ogni opportunità economica offerta non per democratizzare e liberalizzare la Cina, ma per farla diventare la nuova superpotenza mondiale egemone, in particolare in settori ad alta tecnologia come internet, supercomputer, intelligenza artificiale, robotica, automazione industriale, nuovi materiali, ferrovie, aerospazio, infrastrutture marittime e scienze della vita, non per questo rinunciando all’autocrazia ed anzi facendo leva su di essa come vantaggio competitivo rispetto all’Occidente e alle economie di mercato.

Come ulteriore conseguenza del “nuovo corso” della politica estera (commerciale e non solo) americana, anche la Germania dovrà rinunciare, secondo Trump, alla politica di un surplus commerciale permanente conseguita con determinazione da almeno 11 anni in qua anche in violazione alle stesse regole europee, senza che la Commissione Ue o altri organismi abbiano mai avuto la capacità o la voglia di imporne il rispetto come invece chiesto nel caso di sforamenti di parametri su deficit o debito da parte dei paesi del Sud Europa.

Si potrebbe immaginare che Berlino e Pechino possano fare asse, ma a parte il poco rassicurante precedente storico, così non sembra essere perché anche in Germania si guarda con crescente timore all’eccessiva intraprendenza della Cina, tanto che il governo di Angela Merkel ha deciso di rafforzare le norme anti-scalata ostile riducendo dal 25% al 10% il tetto che fa scattare il “golden power” di Berlino. In pratica ora chiunque voglie acquisire più del 10% di una società tedesca operante in settori ritenuti “strategici” o dotata di tecnologie e know-how “sensibili” dovrà essere gradito al governo tedesco. La Francia, da parte sua, è ugualmente preoccupata per un altro “fronte caldo”, quello della crescente influenza cinese in Africa.

Nell’ultimo Focac (Forum on China-Africa cooperation) tenutosi lo scorso settembre a Pechino sono stati annunciati nuovi investimenti cinesi per 60 miliardi di dollari tra il 2019 e il 2021 (dopo che un’identica somma è già stata spesa nel triennio 2016-2018). Investimenti che vanno sostanzialmente tutti a migliorare le infrastrutture esistenti e a progettarne e realizzarne di nuove (sono già oltre 3 mila i progetti infrastrutturali varati). Elargendo ingenti prestiti ai governi locali (oltre 115 miliardi tra il 2000 e il 2016) Pechino finisce poi col legare a sé, trasformandoli in suoi debitori, molti paesi in via di sviluppo che finora godevano di relazioni privilegiate con Parigi (e Bruxelles).

La risposta di Emmanuel Macron non si è fatta attendere, col lancio di un nuovo piano per l’Africa che prevede già per l’anno prossimo un miliardo di euro di donazioni (contro i 300 milioni stanziati fino a quest’anno) per paesi poveri o deboli. Il problema del presidente francese è che un miliardo sul piatto contro 20 ogni anno da parte di Pechino rischia di essere ben poca cosa, se non si riuscirà a giocare d’intesa con gli Usa ancor prima che col resto della Ue.

Parigi e Londra guardano infine con preoccupazione all’attivismo di Pechino nel settore nucleare. In base a un accordo siglato da David Cameron con Xi Jinping China General Nuclear Power UK detiene il 33,5% del capitale della centrale nucleare di Hinkley Point C, centrale nucleare di nuova generazione tuttora in costruzione che sarà gestita dalla francese Edf Energy che in Gran Bretagna gestisce altri 8 impianti a cui guardano i cinesi, dettosi pronti a rilevare fino al 49% del capitale di ciascun sito se si presentasse l’occasione. Nel frattempo la tecnologia “Epr” (European pressurized reactor) sviluppata da Edf è stata già utilizzata da Pechino per il primo reattore del nuovo impianto nucleare di Taishan, nella provincia di Guangdong e potrebbe essere venduta oltre che in Gran Bretagna anche in Pakistan e in Brasile.

Luca Spoldi

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