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Economia
Ex Ilva, l'ennesima liturgia al Mise. L'epilogo che il Governo non vede

Generici richiami all’”assunzione delle proprie responsabilità” da parte del Governo nei confronti degli indiani di Arcelor Mittal sull’accordo del 4 marzo che ha sminato la bomba del contenzioso legale sull’ex Ilva. Parole forti come “inaccettabile, inadeguato e non realizzabile” per definire il nuovo piano industriale appena presentato dal Ceo di Am Investco Lucia Morselli. Risottolineature per la millesima volta che “il mercato dell’acciaio è un asset strategico per l’Italia”. 

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L’ennesima liturgia dei tavoli sull’ex Ilva al Ministero dello Sviluppo economico non ha portato nessun elemento nuovo nella risoluzione del dossier Taranto. Esito paradossale dopo che addirittura due settimane fa, dopo la ripresa degli scioperi delle tute blu di ArcelorMittal Italia, era stata fissata dai titolari del Mise e del Mef, Stefano Patuanelli e Roberto Gualtieri, la data significativa del 5 giugno per la presentazione del nuovo piano industriale da parte del colosso dell’acciaio come una sorta deadline per costringere il primo gruppo mondiale dell'acciaio a un’operazione verità sul futuro degli stabilimenti italiani. 

E dopo che sabato scorso, di fronte alle nuove strategie “insoddisfacenti” respinte al mittente, Patuanelli aveva annunciato che l’esecutivo stava lavorando ad “un piano nazionale per l’acciaio, filiera fondamentale per i nostri sistemi produttivi”.

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Dal 5 giugno si è arrivati al 9 che ora, mentre la cassa integrazione ha spinto la situazione negli stabilimenti al limite dell’insostenibilità, è diventato "la prossima settimana” quando, ha annunciato il titolare del Mise, “ci sarà un nuovo incontro con Arcelor Mittal per poter trovare una soluzione”. Così la girandola degli incontri non si ferma. 

Oggi all’appuntamento in videoconferenza al dicastero fra esecutivo, sindacati e commissari, di fantomatici piani nazionale sull’acciaio non è stato accennato alcunché. E dopo che sabato al Tg1 Patuanelli aveva tuonato contro ArcelorMittal dicendo di voler “capire se il gruppo crede nella costruzione a Taranto di un impianto nuovo e all’avanguardia in Europa”, rilanciando l’accordo di marzo su tutela occupazionale e riconversione industriale, fra le associazioni di rappresentanza dei lavoratori c’è chi non esita a definire il Governo in completo stato confusionale. Sembra non riconosca, si fa notare, tutti i segnali che stanno arrivando dal gruppo franco-indiano.

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Stracciando completamente gli impegni sulla piena occupazione (ma anzi mettendo sul tavolo 5.000 nuovi esuberi) e sugli investimenti per dare un futuro di sostenibilità alla più grande acciaieria europea, il piano “post Covid” presentato da Mittal è stato letto come un voler farsi accompagnare alla porta dall’esecutivo. Un invito a levarsi di torno prima di novembre, quando secondo l’accordo di marzo gli indiani potranno andarsene pagando una penale di 500 milioni di euro.

Riconsegnare le chiavi ai commissari prima della deadline autunnale significa dover pagare di più. Essere invitati ad andar via per consentire allo Stato di intervenire per rimettere in piedi al più presto una situazione che è al limite della chiusura degli impianti (la produzione è al minimo storico) può essere quindi una way-out, è la lettura che si da, che può minimizzare l’esborso di denaro. "Un conto è dire di andarsene, un altro è essere invitato a togliere il disturbo", spiegano fonti fra le associazioni di rappresentanza delle tute blu. 

Era ovvio che la risposta del Governo sarebbe stata: "Non possiamo pensare che si riparta da zero”, facendo carta straccia anche degli accordi sindacali, dopo tutto quello che è successo nel corso degli anni a Taranto. Oltretutto, dopo la presentazione del piano, criticato a 360°, dall’azienda non è partita alcuna difesa, anche per spiegare la ratio delle strategie assunte. Un silenzio che tutti stanno interpretando in maniera univoca. Pare che solo l'esecutivo non l'abbia capito. 

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