"Italiani, popolo di risparmiatori: miliardi fermi sotto il cuscino. Ecco come mobilitare le ricchezze e trasformarle in crescita" - Affaritaliani.it

Economia

Ultimo aggiornamento: 12:21

"Italiani, popolo di risparmiatori: miliardi fermi sotto il cuscino. Ecco come mobilitare le ricchezze e trasformarle in crescita"

Sei mila miliardi fermi tra conti correnti e depositi: la ricchezza degli italiani non si trasforma in crescita. L'intervista all'avvocato Giorgio Bianco (Giambrone & Partners)

di Rosa Nasti

Troppi risparmi, pochi investimenti: senza regole chiare la ricchezza degli italiani resta sotto il cuscino

Sei mila miliardi di euro. È questa la ricchezza finanziaria accumulata dalle famiglie italiane, secondo i dati di Confindustria. Un patrimonio immenso, che però in buona parte resta parcheggiato tra conti correnti e depositi, invece di trasformarsi in energia per l’economia reale. Come si sblocca questo capitale? Quali strumenti servono per dare fiducia ai risparmiatori e convogliare il denaro verso imprese, infrastrutture, innovazione? Ne abbiamo parlato con l’Avv. Giorgio Bianco, Partner di Giambrone & Partners Studio Legale Internazionale.

La ricchezza finanziaria delle famiglie italiane ha superato i 6mila miliardi di euro. Una somma enorme, che in parte rimane "ferma sotto il cuscino", ma cosa farne? Come si mobilitano le ricchezze?

La ricchezza privata in Italia è indubbiamente un capitale straordinario, ma spesso non viene canalizzata verso l’economia reale. La mobilitazione passa innanzitutto attraverso strumenti che  diano fiducia e sicurezza agli investitori. Significa rendere più accessibili e trasparenti le  opportunità di investimento, creare veicoli che convoglino il risparmio verso infrastrutture,  innovazione, imprese solide, con un livello di tutela comparabile a quello dei titoli di Stato.

Non  si tratta di cambiare la mentalità degli italiani, che sono prudenti per tradizione, ma di offrire loro  strumenti adeguati, con regole certe. Da osservatorio internazionale, anche con la recente apertura del nostro ufficio a Parigi, constato che in Francia questo processo è stato accompagnato da un forte supporto normativo e fiscale: un modello da cui l’Italia potrebbe trarre ispirazione. 

Il rendimento del Btp decennale italiano ha raggiunto quello dell’Oat francese, segnando  un momento storico; quanto può questo cambiamento nella percezione del rischio sovrano favorire la mobilitazione dei risparmi delle famiglie italiane verso investimenti produttivi nel Paese? 

L’avvicinamento tra Btp e Oat è un segnale molto importante: dimostra che il mercato percepisce  un rischio Italia più contenuto. Questo può contribuire a liberare capitali, perché riduce la  differenza di percezione tra investimento “domestico” e quello estero. Tuttavia, non basta la convergenza dei rendimenti: serve un contesto stabile, un quadro normativo chiaro e una fiscalità che premi chi investe nel lungo periodo.

In Francia gli investimenti istituzionali e privati beneficiano di un ecosistema consolidato: questo è l’elemento decisivo che l’Italia deve rafforzare per trasformare la fiducia dei mercati in crescita reale. Tuttavia è bene chiarire che l’avvicinamento tra Btp e Oat non è solo per merito dell’Italia. Infatti, la Francia è stata di recente declassata nel rating e la percezione degli investitori sugli Oat è mutata anche per via dell’instabilità politica francese, del forte aumento del  debito pubblico e della pressione fiscale. 

Gli italiani storicamente mostrano una forte propensione al risparmio e una preferenza per i titoli di Stato; quali strumenti e incentivi potrebbero convincerli a diversificare  maggiormente? 

La chiave è duplice: da un lato incentivi fiscali mirati, dall’altro una maggiore educazione finanziaria. Bisogna spiegare che diversificare non significa rinunciare alla sicurezza, ma bilanciare  meglio il rischio e ottenere un rendimento più stabile. Fondi di investimento dedicati a settori strategici, piani individuali di risparmio, strumenti che favoriscano la transizione energetica o digitale: tutti questi potrebbero attrarre l’attenzione di risparmiatori attenti al futuro. In Francia, ad esempio, strumenti come l’“assurance-vie” hanno rappresentato un grande successo proprio perché coniugano sicurezza, rendimento e vantaggi fiscali. È un approccio che l’Italia dovrebbe  considerare seriamente.

In che misura il risparmio privato potrebbe finanziare investimenti pubblici o ridurre il  deficit? 

Il risparmio privato può essere un alleato strategico delle politiche pubbliche, ma non può  sostituirle. Bisogna creare partnership pubblico-privato, emissioni di bond tematici, strumenti che permettano di indirizzare parte del risparmio verso progetti nazionali senza che il cittadino  percepisca un sacrificio, ma piuttosto un’opportunità. Se ben regolato, questo meccanismo può  aiutare a finanziare infrastrutture, ricerca, transizione verde, contribuendo al contempo a ridurre  il deficit. Ancora una volta, il modello francese e, più in generale, quello di altri Paesi europei mostra che la sinergia tra risparmio privato e investimenti pubblici è possibile se vi è chiarezza  normativa e certezza nella governance dei progetti. 

Confindustria suggerisce di spostare anche solo l’1% dai depositi verso investimenti nelle  imprese italiane: è un obiettivo realistico?

Sì, ma a condizione che si creino i giusti strumenti e un clima di fiducia. L’1% può sembrare una  cifra piccola, ma su 6mila miliardi è enorme e potrebbe costituire un volano straordinario per il  tessuto produttivo nazionale. Perché questo avvenga, tuttavia, servono trasparenza, protezione  degli investitori, incentivi fiscali e, soprattutto, stabilità normativa. Non si può chiedere al  risparmiatore di assumersi rischi imprenditoriali se non è certo delle regole del gioco.

Dal mio  punto di vista, maturato in diversi Paesi esteri anche extra-UE, ritengo che l’obiettivo sia realistico  solo se accompagnato da riforme serie e da una comunicazione chiara. Sicuramente andrebbe evitata la schizofrenia normativa che si è mostrata per il superbonus edilizio. È proprio il tipo di  passaggio che può fare la differenza per la competitività dell’Italia sui mercati internazionali.

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