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Economia
Lockdown, il rischio? Compromettere la ripresa. E' tempo di un bilancio
Foto Facebook Giuseppe Conte

Probabilmente, aveva ragione Blaise Pascal, quando disse che i problemi dell’umanità dipendono dall’incapacità dell’uomo di stare solo in una stanza. O Marcel Proust che, costretto a casa quasi tutta la vita per l’asma cronica, ne approfittò per scrivere la Recherche. Ma noi comuni mortali, noi parte di quei tre miliardi di esseri umani in lockdown, abbiamo il diritto di porre qualche domanda su costi/benefici della clausura? Peraltro, senza sapere quando e come finirà. In epoche passate, le decisioni delle autorità e le indicazioni degli degli esperti non erano accolte con la stessa fiducia e sostanziale disciplina di oggi.

C’erano sommosse, nascevano leggende metropolitane ben più pericolose delle fake news, si dava la caccia all’untore e qualche medico moriva dopo atroci torture, come racconta Manzoni ne “La colonna infame”. Senza bisogno di coprifuoco e repressione poliziesca, la popolazione ha accettato di chiudersi in casa, le ammende e le denunce sono relativamente poche in rapporto ai milioni di cittadini coinvolti. Da settimane, crediamo dunque più alla scienza, anche se proprio gli scienziati si sono spesso contraddetti e qualcuno si autoproclama all’avanguardia di nuove scoperte e vaccini.

E abbiamo creduto anche alla politica, nonostante decisioni tardive (Usa, Gran Bretagna, Francia), contraddittorie (Spagna, Germania), autoritarie (Cina) conflittuali fra regioni e poteri (Italia), benchè proprio l’Italia sia stata un punto di riferimento (se non un modello) come sostenuto anche dall’OMS. Ma fino a quando è immaginabile e calcolabile la disciplinata sopportazione della popolazione? Non è solo questione di ora d’aria dei bambini o di incontri fra fidanzati, o di attività fisica, ma di resistenza di persone sole e anziane, di padri di famiglia che non sanno come arrivare alla fine del mese, di quanti vedono andare in fumo risparmi, commerci, attività; di ricadute psicosociali sulla collettività.

E qual’è il punto di ragionevole equilibrio fra il principio etico della salvaguardia della salute e le devastanti conseguenze sull’economia? Non è solo questione di potenza del “bazooka” finanziario che Paesi e istituzioni internazionali promettono, ma di valutare la soglia di rottura: oltre questa, i tempi di una ripresa potrebbero comprendere una generazione. La fragilità non riguarderà soltanto i mercati finanziari allo sbando, ma anche il tessuto politico e sociale. Oggi la politica ha delegato la gestione della salute e dei comportamenti alla scienza, ma prima o poi dovrà riappropriarsi di responsabilità più generali, con uno sguardo lungimirante sul prezzo che stiamo pagando.

Negli Stati Uniti, in poche settimane, i nuovi disoccupati sono quasi sette milioni, molti di più che all’apice della crisi del 2008. Le valutazioni sulla caduta del Pil in Europa nel 2020 oscillano fra il 3 e il 6 per cento, a seconda dello stato di salute finanziaria dei singoli Paesi. L’emergenza ha imposto un’eccezionale mobilitazione di risorse, ma ha accentuato - a seconda dei Paesi colpiti - la fragilità dei sistemi di sicurezza sociale e sanità pubblica (in primo luogo negli Stati Uniti) e le divisioni fra europei, quando era lecito attendersi un’eccezionale reazione solidale. La BCE ha trattato il problema con ridicola sufficienza. Italia e Spagna sono state praticamente abbandonate.

Alcuni Paesi hanno ostacolato l’esportazione di forniture sanitarie. Olanda e Germania sono i capofila del “Neina ipotesi di mutualizzazione del debito. L’Ungheria ha sospeso la democrazia. In pratica, oggi in Europa non circolano nè cittadini nè merci, se è vero che in Germania scarseggia la pasta e non arrivano componenti italiani per le fabbriche di auto. Il coronavirus ha riprodotto la cacofonia a proposito di altre problematiche, come il controllo delle frontiere esterne, i flussi migratori, i rapporti economici con Russia e Cina. Ognuno per sè, con inclinazioni al peggio. Soglia di sopportazione e condizioni per la ripresa si riassumono nella domanda posta all’inizio.

Possiamo cominciare a valutare costi e benefici del lockdown? Non si tratta di scomodare il cinismo di Stalin (un morto è una tragedia, un milione di morti sono una statistica), ma di ragionare sui danni collaterali, sull’effettiva efficacia della clasura (tanto più che è forte il rischio di contagio di ritorno), su numero reale di decessi in rapporto a periodi precedenti, a patologie già presenti nelle vittime, a morti che forse si sarebbero potute evitare se le energie non fossero state concentrate su un’unica emergenza.

Oggi, registriamo caduta verticale di rapine, calo dell’inquinamento atmosferico, tasso di incidenti stradali vicino allo zero, assenza ovvia di “stragi del sabato sera”, il che offrirà alle statistiche un maggior numero di giovani vivi. Non per questo apriremo le prigioni e terremo a lungo chiuse le fabbriche di automobili o trasformeremo le autostrade in piste ciclabili. Facciamo il possibile perchè il rimedio non sia peggiore del male.

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