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Economia
Npl, nessuno tsunami nei prossimi mesi: il sistema (per ora) regge bene

Npl, per ora nessun allarme tsunami

Lo si è detto tante volte: con la fine delle garanzie statali e la rimodulazione delle tutele sul credito si rischia un’impennata dei crediti deteriorati, quelli che in gergo tecnico vengono definiti “non performing loans” o, abbreviando, Npl. Ed è almeno 15 anni che questa tipologia di credito è entrato prepotentemente nel lessico finanziario. Partiamo dai numeri: secondo il Market Watch Npl di Banca Ifis, nel 2008, anno della grande crisi originata dal crollo di Lehman Brothers, in Italia i crediti deteriorati rappresentavano il 4,7% dei finanziamenti totali, mentre nel 2015 erano saliti al 17%. E questo, dal punto di vista assoluto, significa un passaggio da 83 a 342 miliardi di euro. Per questo, dal 2016 ci sono stati ben otto interventi regolamentari e nei principi contabili, che hanno dotato il settore di nuovi strumenti di politica industriale.
 
Risultato: è nato un vero e proprio comparto che ha la necessità e anche il compito di dare stabilità al sistema finanziario. Il mercato delle transazioni, dunque, è passato da 19 a ha gestito un cumulato di 310 miliardi di portafogli permettendo un’inversione di tendenza. Lo scorso anno, infatti, i crediti deteriorati erano il 4,4% del totale, in linea con quanto accade nel resto d’Europa. Ora si apre una nuova fase: la possibile fine della garanzia statale (GACS) sui prestiti apre sicuramente al possibile aumento degli Npl. Ma gli interventi di politica economica hanno funzionato. I crediti in moratoria erano 270 miliardi, diventati 147 a dicembre 2020 e 44 a dicembre 2021. E non si tratta di crediti particolarmente rischiosi, visto che solo il 24% aveva un rischio di default superiore al 5%.
 
Eppure, nonostante il momento complesso che stiamo vivendo, tra inflazione, strozzature delle catene distributive, speculazione energetica, crisi climatica e guerra in Russia, gli esperti del settore non si aspettano uno tsunami. Il Market Watch di Banca Ifis aveva già iniziato a vedere movimenti particolari alla fine di agosto del 2021, ma mantiene, per ora, un giudizio conservativo: non siamo alla vigilia di un nuovo uragano come quello del 2011. Di più: per la banca di Mestre le aziende, che sono solide grazie all’autofinanziamento, hanno le spalle sufficientemente solide. La previsione è di un incremento di circa un punto percentuale dello stock di deteriorato rispetto allo stato attuale, arrivando al 5,3% nel 2023.
 
A livello europeo l’Italia non è tra quelle più in difficoltà. È vero che nel Vecchio Continente, quando si fanno esami e analisi, si monitorano solo gli istituti di credito più significativi, quindi quelli che hanno una maggiore capacità di sopportazione rispetto agli stress. Ma è innegabile che qualcosa sia cambiato proprio grazie all’industrializzazione dei processi nel mondo del credito deteriorato: siamo passati dal 16,8 al 3,6% di crediti deteriorati nel terzo trimestre 2021. Siamo ancora l’1,5% sopra rispetto alla media europea ma i risultati iniziano a vedersi. Non solo: incidevano per il 34% del complessivo del deteriorato nel 2015, ora rappresentiamo si stima rappresenteranno il 15% del totale UE a fine 2022. Per questo, proprio perché il sistema è solido e la gestione dei crediti deteriorati è ormai un settore a sé si può stare (un pochino più) tranquilli: ci saranno onde, ma non maremoti.

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