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Economia

Rating/ S&P's: il Brasile ora è spazzatura

di Andrea Deugeni
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@andreadeugeni

E meno male che doveva essere l'Eldorado del nuovo millennio, "il Paese del futuro", come lo definiva lo scrittore austriaco ebreo Stefan Zweig, fuggito in America Latina, in un saggio del 1941 con cui voleva rendere omaggio alla nazione che lo aveva accolto. Uno slogan efficace che ha accompagnato Brasilia fino all'ultimo anno (2010) del miracolo economico della Lulanomics, la politica economica espansiva dell'ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva che ha guidato per due mandati (dal 2003 al 2010) il Paese in un decennio d'oro in cui il Brasile ha registrato tassi di crescita costantemente sopra il 2%, con i picchi del 2007 (+5,4%) e del 2010 (+7,5%).

Invece ora, stando ai principali indicatori economici che certificano come il Paese non solo non riesca più a crescere ma si impoverisca pure, il sogno sembra essersi infranto. Promesse non più mantenute che, dopo l'avvertimento del 25 marzo dello scorso anno in cui S&P'S aveva tagliato il merito di credito del Paese da "BBB" a "BBB-", un gradino superiore al livello junk bond, hanno spinto la reginetta a stelle e strisce dell'agenzie di rating ha depennare definitivamente il Brasile dalla lista degli Stati che hanno il bollino dell'investment grade, ossia ancora la caratteristica di "affidabilità" dal punto di vista di un investitore istituzionale (downgrade del rating a BB+). L'agenzia americana ha inoltre confermato l'outlook negativo lasciando la porta aperta a ulteriori tagli del merito creditizio (nel mese scorso anche Moody's aveva già portato il rating del Brasile al livello più basso della categoria investment grade assegnando però un outlook stabile).

Cos'è cambiato nel Paese che fino a qualche anno fa era la prima lettera dell'acronimo Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), ossia i Paesi le cui economie tiravano più del resto del mondo? Il sistema si trova in profonda crisi e la decisione di S&P's è dovuta infatti alle ripercussioni sul governo delle sfide economiche e politiche che pesano sul presidente Dilma Rousseff (nella foto in alto). Quest'anno Brasilia è entrata in recessione, un calo del Pil che, stimano le principali banche d'investimento, potrebbe aggirarsi in un range compreso fra un -1,5% (nelle più rosee previsioni) e un più pesante -3,2% (stimato recentemene dagli analisti di Barclays). Un risultato che nei monitor degli analisti finanziari viene annoverato come la peggiore contrazione degli ultimi 20 anni.

L'inflazione annua galoppa intorno al 9,5%, il tasso di disoccupazione è salito a luglio al 7,3%, al massimo da cinque anni e, secondo una ricerca di Focus Economics, una società indipendente di analisi economica, la ricchezza brasiliana si contrarrà, sempre quest'anno, dell'1,7% e crescerà solo dello 0,3% nel 2016. Con questi numeri la contrazione media del Paese nel triennio 2014/2016 sarebbe pari allo 0,45%, numeri da far tremare i polsi a un Paese dalla demografia giovanile molto diversa da quella europea: tanto è vero che il Pil pro-capite, la ricchezza cioè per abitante, è in calo continuo da cinque anni, essendo passata dai 13.240 dollari del 2011 agli 11.567 del 2014 e scenderà ancora quest'anno e nel 2016.  

Insomma, da ormai due anni il Brasile è praticamente incapace di crescere. Problemi strutturali come i bassi investimenti e le infrastrutture arretrate si sommano poi anche ai casi di corruzione che hanno investito grandi aziende ed esponenti politici di primo piano. Da ultimo lo scandalo che ha visto protagonista il colosso petrolifero di Stato, Petrobras, che ha distribuito miliardi di dollari di mazzette al Partito dei Lavoratori, la formazione dell'ex presidente Lula e la Rousseff, ex presidente del Cda di Petrobras. L'accusa politica all'economista erede di Lula è di non aver saputo seguire la bonanza economica che aveva caratterizzato l'ultimo decennio, con una forza di governo lacerata e il deficit pubblico in costante crescita  (al netto degli interessi è previsto ora allo 0,5% del Pil, contro l'avanzo del 2% stimato a inizio anno. Il debito lordo supererà il 70% del Pil nel 2016). Per di più, la figura stessa di Rousseff è sotto pesante accusa, visto che era presidente di Petrobras quando si sono svolti i fatti corruttivi ora sotto i riflettori.

A complicare lo scenario va inoltre considerata la frenata della Cina, tra i principali importatori delle materie prime brasiliane, e il calo dei prezzi del petrolio e di altre commodity che ha aperto ampie falle nel bilancio pubblico creando non pochi grattacapi a Rousseff e al ministro delle Finanze, Joaquim Levy. Pesa inoltre il calo dei consumi, tra le principali ragioni della revisione in peggio delle stime sul Pil 2015 fatte da Barclays.

L'effetto combinato di tutto ciò è che il real, il conio nazionale, è una delle peggiori monete dell'anno, con una perdita sul valutario intorno al 30% nei confronti del dollaro (oggi cede quasi il 3% sul biglietto verde, toccando il livello più basso degli ultimi 13 anni e scivola anche contro l'euro. Negativa la Borsa di San Paolo). A guardare i credit default swap, cioè le assicurazioni che si comprano sul mercato per proteggersi dal rischio di fallimento di un emittente sovrano, la situazione non era così tesa da sei anni a questa parte e i rendimenti dei titoli di Stato hanno sfiorato i record di sempre. Ora, molti sperano che la mazzata di S&P serva a svegliare il governo più che a tramortire definitivamente il Paese. Intanto, non sono poche le aziende italiane che si preoccupano: basta pensare che la Fiat Chrysler è numero uno sul mercato brasiliano, ma anche Pirelli e Telecom, Cnh e Saipem o ancora Astaldi ed Enel hanno grandi interessi nel Paese.