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Economia
Recovery Fund, i soldi all'Italia e il pericolo che corriamo

Un giornale mi ha gentilmente fornito la lista delle raccomandazioni della Commissione all’Italia per la compilazione dei “programmi dettagliati” cui è condizionata la concessione dei miliardi di euro promessi dall’Europa. Ad essere esatti, per la stragrande maggioranza non si tratta di regali, ma di un (pericoloso) permesso di contrarre ancora debiti.

Le finalità indicate sono le seguenti: “migliorare l’efficienza del sistema giudiziario e il funzionamento della pubblica amministrazione, evitare ritardi nei pagamenti, anticipare i progetti di investimento pubblici maturi, promuovere gli investimenti privati, concentrare gli investimenti sulla transizione verde e digitale, in particolare su una produzione e un uso puliti ed efficienti dell’energia”. La prima tentazione è quella di fare dell’umorismo, al riguardo, ma bisogna trattenersi. Se il malato ha un cancro e qualcuno propone di guarirlo con una limonata, la tentazione di mettersi a ridere è comprensibile, ma chi avrebbe il coraggio di farlo, dinanzi al condannato a morte?

L’ampiezza del programma proposto rende tuttavia inevitabile un tranquillo sarcasmo. Infatti questa rivoluzione è del tutto impossibile da realizzare. Per cominciare, anche se i famosi duecento e passa miliardi sembrano il Pozzo di San Patrizio, l’esperienza insegna che non bisogna mai illudersi, sulla propria ricchezza. È perché i figli dei ricchi considerano il patrimonio familiare inesauribile che non raramente si riducono in miseria. Sono convinto che se dei competenti si mettessero a pianificare tutte quelle riforme, specificando per ognuna il costo, si andrebbe molto oltre i duecento miliardi. Dunque, calma e gesso.

L’Italia non può realizzare d’un sol colpo tutte queste riforme, forse nessun Paese lo potrebbe. Non con questi fondi,. E soprattutto perché di riformarsi è sostanzialmente incapace, come dimostrano i decenni di storia passata. Nemmeno quando si tratta di riforme non costose, come quella della giustizia. Perciò figurarsi se mai potrebbe essere capace di una palingenesi, che dico, di una risurrezione come quella delineata a Bruxelles.

E tutto ciò corrisponde a dire che l’Europa non è seria. Perché se quelle riforme le volesse seriamente, saprebbe anche di averci posto una condizione impossibile. E dunque la promessa dei nuovi crediti sarebbe fasulla. La seconda ipotesi è che l’Europa abbia formulato quella linea di programma sapendo che non era da prendere alla lettera, e allora non sarebbe seria neanche per questo verso. Sarebbe come qualcuno che parla con la faccia severa e nel frattempo ci strizza l’occhio: “Lo sai che dico queste cose per la galleria, tu non te ne curare”.

Un’Unione in cui imperasse il buon senso si sarebbe accontentata di molto meno, ma quel “molto meno” l’avrebbe effettivamente preteso. Ad esempio, due sole riforme, ma a tamburo battente: quella della giustizia e la totale liberalizzazione del mercato del lavoro. Niente contratti nazionali, libertà di contrattazione delle paghe, libertà di assunzione e licenziamento, snellimento della burocrazia riguardante le imprese e il lavoro. Nessuno dica che questi programmi sono troppo ambiziosi, perché la lista stilata dalla Commissione Europea è molto più lunga della mia.

Queste due riforme tenderebbero in sostanza a rilanciare il lavoro e la produzione di ricchezza. Qualcuno temerebbe che, liberalizzando i salari, le imprese ne approfitterebbero per strangolare i lavoratori? Ammettiamo che sia così. Le imprese assumono a gogò, perché il lavoro costa poco ed eventualmente si possono licenziare i lavoratori in soprannumero. Così si ingrassano a spese dei dipendenti. Ma la pacchia è di breve durata. Se il mercato assume i disoccupati, seppure pagandoli poco, presto i disoccupati finiranno, e i datori di lavoro dovranno offrire di più, ai dipendenti, se vogliono sottrarli ai concorrenti. Fatalmente arriva il momento in cui il sistema si riequilibra. E il lavoro è rimunerato quanto effettivamente vale, dal punto di vista economico.

Se in Italia esiste il lavoro nero, è perché il lavoro ufficiale è “sovrappagato”, mentre il lavoro nero (accettato da chi ha veramente bisogno) è “sottopagato”. Ciò significa che, se l’operaio legale è pagato 1.500€ al mese, e quello in nero 600€, probabilmente il salario equo sarà intorno ai 1.000€. Se a qualcuno la sola idea sembra sacrilega, gli segnalo che ognuno ha la sua idea del sacrilegio. Io trovo sacrilega la disparità tra uno che incassa 1.500€ al mese, e un altro che ne incassa 600, per lo stesso lavoro.

Ma tutto questo è un gioco intellettuale. Se conosco il mio Paese, l’Italia non realizzerà né il libro dei sogni della Commissione Europea né le due riforme suggerite da me. Per questo le ho accuratamente scritte sull’acqua.

 

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