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Economia
Trump vuole rilanciare l'economia americana e progetta una manovra keynesiana

Quando si è più abituati a capire che a non capire, di fronte al confuso, al contraddittorio, all’oscuro, ci si sente frustrati.  “È lui che non ha le idee chiare o sono io che mi sono svegliato un po’ scemo? È lui che dice stupidaggini, facendo credere che siano cose complesse o è che tutto ciò è troppo difficile per il mio livello mentale?”

A tutto questo si pensa leggendo l’articolo di Lucrezia Reichlin, sul Corriere(1). Donald Trump ha promesso che gli Stati Uniti, anche a costo di indebitarsi ulteriormente (e Dio sa se non lo siano già abbastanza) spenderanno soldi in quantità per rilanciare l’economia. Come? E qui s’incontra la nebbia. Pare si parli di grandi lavori pubblici, a cominciare dal famoso muro per tenere lontani i messicani. E poi strade, ponti, porti, la solita giaculatoria keynesiana. Ma, dicono i competenti (sempre che io abbia capito bene) questa è solo la parte minore. La parte maggiore – forse quattro quinti della spesa in deficit - va a sollevare gli americani dal peso del fisco, in modo che possano produrre più ricchezza. Naturalmente molti hanno notato che queste sono formule “di sinistra”, e bisognerà vedere se il Congresso e il Senato repubblicani li lasceranno passare.

Fin qui credevo d’avere capito tutto, poi ho letto l’articolo della Reichlin, e mi sono accorto di non avere capito niente. Quella di Trump non è affatto una manovra keynesiana, dice lei. Come abbiamo potuto pensarlo, e in tanti per giunta? L’economista spiega perché non lo è ed io non ho capito la sua argomentazione. Se qualcuno me la chiarisce, ma in soldoni, mi fa un favore. Intanto mi lancio a dire che cosa penserei da solo, partendo da quattro quinti di riduzione fiscale e un quinto di investimenti “keynesiani”.

Lo Stato ha assoluta necessità del gettito fiscale ma ciò che il contribuente paga in tasse e imposte, in quanto consumatore lo sottrae ai consumi e con ciò deprime la domanda; e in quanto produttore lo sottrae al profitto, con ciò rendendo meno agevole -  e a volte impossibile - l’attività d’impresa. Dunque la diminuzione del carico fiscale non può che essere una benedizione, perché fa aumentare contemporaneamente l’offerta e la domanda.

Il problema nasce quando l’operazione è progettata in deficit. O lo Stato contrae debiti, o stampa banconote, e in ambedue i casi, come conseguenza immediata o rinviata nel tempo, provoca inflazione. È vero che gli Stati Uniti sono padroni della loro moneta, ma è anche vero che, aumentando il circolante, esportano inflazione, dal momento che tanti Paesi tengono dollari come moneta di riserva (quasi fosse oro); e, se la Federal Reserve esagera, si potrebbero avere guai. I Paesi potrebbero cominciare a disfarsi dei dollari per volgersi all’euro, alla sterlina, allo yuan, con le conseguenze del caso. L’inflazione che si voleva esportare potrebbe rimbalzare come un boomerang, ingigantendosi. Già la Cina, temendo qualcosa del genere, ha di molto diminuito il suo stock di titoli di Stato statunitensi, e si è messa a comprare imprese in tutto il mondo. Ciò significa che vuole possedere “cose” che possono certo svalutarsi, ma soltanto fino ad un certo punto.

Coi debiti bisogna andarci piano. In tanto Washington può attuare una manovra saggia e di successo, in quanto il “ritorno” di quella riduzione del carico fiscale si traduca in un tale slancio dell’economia da moltiplicare il gettito fiscale, compensando la spesa in deficit. Ma se poi, come tante altre volte si è verificato, le profezie keynesiane non si avverassero? Inoltre la manovra di cui parla Trump riguarderebbe cinque trilioni di dollari (cinquemila miliardi, poco meno di due volte il debito pubblico italiano) mentre, se non ricordo male, il gettito fiscale americano è di valore molto inferiore. Dove va a finire il resto?

Comunque, c’è un’evidenza che troppi Stati ignorano: se si spende più di quanto si incassa, poi bisognerà incassare più di quanto si spende. I keynesiani pensano sempre ad un boom economico miracoloso che ripiana tutto, ma poi ciò non avviene e bisogna lo stesso ripagare il debito. Soffrendo e pagando interessi spropositati, sotto la minaccia del fallimento.

Tutti gli Stati avrebbero dovuto sin da principio darsi una regola di ferro: non sottrarre più del quindici-venti per cento della ricchezza prodotta. Soprattutto ricordando che è molto più facile dire di no ad una nuova richiesta di benefici che revocare quelli già concessi. In Italia ce lo dimostra la spending review (quella che forse gli inglesi chiamano “revisione della spesa”), di cui si parla sempre e che non si realizza mai. Aperto il vaso di Pandora delle spese fisse e dell’eccessiva pressione fiscale, non c’è modo di richiuderlo.

 Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it

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