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Economia
Ubi Banca, no a Intesa Sanpaolo? Rischio aumenti di capitale in futuro

Secondo Equita (advisor di Intesa Sanpaolo) le uniche alternative che resterebbero a Massiah sarebbero una aggregazione con Banco Bpm o con Mps, ma porterebbero ad un aumento da un miliardo

Di Luca Spoldi

Il fronte anti Ops inizia a sfaldarsi in Ubi Banca: dopo i tentennamenti della Fondazione Banca del Monte di Lombardia (azionista di Ubi Banca col 4,9%) e mentre si attende che anche Fondazione Cr Cuneo (5,9%) prenda una posizione, ad aderire “a sorpresa” o quasi all’Ops lanciata da Intesa Sanpaolo sull’istituto guidato da Victor Massiah è Cattolica Assicurazioni (nel cui capitale ha annunciato di recente il suo ingresso il gruppo Generali), socia all’1% della banca e da pochi mesi entrata nel Car (Comitato azionisti di riferimento, che raggruppa quasi il 20% del capitale di Ubi Banca).

Eppure Massiah non ha mancato di “motivare” il no pronunciato dal Cda all’offerta di Carlo M essina, cercando così di spronare azionisti grandi e singoli a tenere duro, accennando in particolare alla possibilità di incrementare il flusso di dividendi futuri grazie alla valorizzazione di “tesori nascosti” che saranno “in parte valorizzati” nel piano industriale appena aggiornato di Ubi Banca.

Tesori il cui contributo secondo Massiah è stimabile in “centinaia di milioni” e che permetterebbe “di liberare evidentemente maggiore profittabilità” per gli azionisti che vedrebbero aumentare il monte dividendi disponibile “fino circa a 840 milioni” nei prossimi tre anni. Tuttavia, l’ipotesi di un futuro “stand alone” appare poco credibile anche agli occhi di Massiah che infatti promette, se l’istituto resterà indipendente, di finalizzare entro la fine dell’anno progetti di acquisizione, beninteso proteggendo gli azionisti di Ubi Banca e minimizzando “gli aumenti di capitale”.

Già, perché come notano gli analisti di Equita Sim (peraltro tra gli advisor di Messina insieme a Mediobanca, che è anche l’azionista di riferimento di Generali, a Morgan Stanley, a Jp Morgan e a Ubs) non avendo Massiah “a disposizione valide alternative strategiche” se non Mps o Banco Bpm (visto che Bper Banca si è schierata con Intesa Sanpaolo insieme al suo socio rilevante, Unipol), più “piccole” di Ubi Banca in termini di capitalizzazione di borsa ma ancora alle prese, come Ubi stessa, col completamento del processo di de-risking, il rischio è proprio che per condurre in porto l’operazione gli azionisti Ubi Banca debbano mettere mano al portafoglio “per almeno 1 miliardo, con conseguente rischio diluizione oltre che le consuete incertezze legate all’execution dell’integrazione”.

Si tratterebbe, dunque, di anticipare, de facto, quelli che saranno i dividendi poi redistribuiti ai soci, o di rinunciarvi per evitare di dover sborsare capitali in anticipo, o ancora accettare di diluire il proprio peso nel capitale, rischiando di diventare irrilevanti né più né meno di quanto rischiano di diventare a seguito dell’eventuale fusione tra Ubi Banca e Intesa Sanpaolo. Non proprio il massimo soprattutto per chi, come le Fondazioni, ha bisogno di dividendi e interessi derivanti dai propri investimenti in azioni e bond per finanziare la propria attività istituzionale.  

L’unica alternativa sarebbe trovare candidati differenti dai due indicati da Equita e disponibili ad una integrazione per dar vita al “terzo polo” che il governo sembra gradire come ipotesi. Ma con Banca Carige ormai accasata, resterebbero Creval e Banca popolare di Sondrio, oltre al Credem. Tutti istituti che non sembrano aspirare ad un fidanzamento con l’istituto guidato da Massiah, i cui soci non possono dunque far altro che sfogliare la margherita e decidere se accettare all’ultimo minuto, sperando in un rilancio, l’offerta di Messina o sperare che Massiah riesca nel miracolo di trovare il partner ideale senza dover chiedere nuovi capitali agli azionisti.

 

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