Investire in Borsa in attesa della Fed, meglio restare in Europa - Affaritaliani.it

Economia

Investire in Borsa in attesa della Fed, meglio restare in Europa

Il clima sta cambiando e i mercati ne prendono atto: dopo aver visto nel corso della primavera i massimi di periodo, sostanzialmente mantenuti fino a giugno, il riaccendersi della crisi greca prima e il temporale abbattutosi sui listini cinesi poi hanno fatto fuoriuscire dai mercati azionari qualcosa come 8,5 triliardi di dollari, rifugiatasi in bond a breve termine in attesa di avere un quadro della situazione più chiaro.

Che la Cina sia in difficoltà nel centrare l’obiettivo di una crescita del Pil del 7% a fine 2015 è evidente da tempo e a poco per ora sono serviti cinque ribassi consecutivi dei tassi ufficiali, dallo scorso novembre, un nuovo alleggerimento dei requisiti per la concessione del credito e tre svalutazioni dello yuan (il cui valore medio contro dollaro è stato ridotto a 6,401, con una banda di oscillazione di più o meno 2% rispetto a tale valore).

In attesa di vedere se qualcosa migliorerà negli ultimi mesi dell’anno, i primi effetti si sono iniziati a sentire anche in Occidente: negli Usa, ad esempio, l’indice ISM relativo all’attività manifatturiera ad agosto è calato più del previsto, a causa in particolare di uno stop delle esportazioni, il cui sottoindice è ridisceso sui minimi dal luglio 2012. In Europa l’impatto non si è ancora materializzato nei conti, ma Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, ha già messo le mani avanti, lasciando i tassi ufficiali sullo 0,05% (come previsto) e preannunciando che la deflazione potrebbe tornare a riaffacciarsi sul vecchio continente nei mesi a venire. Le previsioni su crescita e inflazione sono infatti state ridotte proprio a causa del rischio di un rallentamento della crescita dei mercati emergenti, in particolare (ma non solo) dell’Asia.

Il Pil nel 2015 dovrebbe salire in Eurolandia dell’1,4%, per accelerare a +1,7% nel 2016 e toccare il +1,8% nel 2017; l’inflazione media è invece vista ora pari ad appena lo 0,1% a fine 2015, all’1,1% nel 2016 e ad un +1,7% nel 2017. A occhio e croce per l’Italia queste previsioni non sono proprio un toccasana: il Pil nominale, ammesso che il “bel paese” sia allineato al resto di Eurolandia, salirebbe infatti dell’1,5% quest’anno (ma il Def 2015 lo aveva previsto a +1,4%, nel secondo trimestre il dato acquisito parla di +1%), del 2,8% nel 2016 e del 3,5% nel 2017, a fronte di un costo medio del debito che il Def 2015 ha previsto pari al 4,2% quest’anno e il prossimo e al 4% nel 2017.

E poiché è il Pil nominale quello che viene utilizzato nei rapporti debito/Pil e deficit/Pil che l’Italia si impegnata col fiscal compact a far calare progressivamente, una minore crescita dell’Europa, per di più legata alla domanda extra-Ue, rischia di significare più tasse o quanto meno minori riduzioni fiscali nel prossimo futuro, che pure il governo continua a promettere ma che per essere realizzati dovranno trovare contropartita o in una riduzione della spesa pubblica o in aumenti di alcune imposte a fronte del calo di altre.

Fortunatamente la Bce non vuole stare a guardare e per evitare che la ripresa, già debole e disomogenei, deragli Mario Draghi si è detto pronto ad estendere ed ampliare il suo programma di quantitative easing (acquisto di bond sul mercato), che finora aveva come obiettivo l’acquisto di 1.100 miliardi di euro di bond entro settembre 2016 e che invece potrà durare più a lungo e toccare importi maggiori “se necessario”. Il solo annuncio ha già indebolito l’euro, rafforzando in particolare il dollaro (e la sterlina). Questo potrebbe avere un ulteriore effetto: convincere la Federal Reserve ad avere ancora “pazienza” prima di iniziare il processo di normalizzazione della sua politica monetaria.

Così anziché a metà settembre Janet Yellen potrebbe riportare i tassi sui Fed Funds (ufficialmente fissati nel corridoio 0-0,25% ma effettivamente ridottisi a zero a fine 2014, prima di risalire gradualmente allo 0,13% attuale) sullo 0,25% a ottobre o dicembre, attendendo poi sino a marzo per rialzarli una seconda volta sino allo 0,50%. Tirando le somme anche da un punto di vista operativo: i mercati azionario dopo quattro anni di continui rialzi stanno iniziando a chiedersi se la corsa non stia per arrivare a capolinea, ma più che ai soli dati macro ancora per molti trimestri sarà necessario guardare all’atteggiamento delle banche centrali per capire cosa potrà succedere. In questo senso meglio ancora rimanere in Europa che non negli Usa e certamente che non sui mercati emergenti.

Ma mentre su questi ultimi ulteriori eventuali ribassi potrebbero offrire gradualmente l’occasione per iniziare ad accumulare una posizione, in fondi o Etf specializzati per area geografica, nel caso dei mercati europei e di Piazza Affari l’eventuale rimbalzo sui valori di fine giugno darebbe l’occasione per alleggerire con decisione le posizioni, parcheggiando una parte del portafoglio su prodotti monetari e una parte, semmai, sull’azionario americano. Per l’obbligazionario a media e lunga scadenza (fondi o titoli che siano) è ancora presto, essendo il ciclo del rialzo dei tassi a malapena all’orizzonte in America e ancora assente dai radar in Europa (Inghilterra compresa, anche se verosimilmente Londra agirà prima di Francoforte) e in Giappone.

Quanto ai settori, le prospettive di una ripresa che andrà gradualmente rafforzandosi in Europa e in Giappone, consolidandosi negli Usa e in Gran Bretagna, dovrebbe favorire i titoli legati ai beni di consumo, mentre le parole di Draghi faranno certamente bene a banche e finanziari del vecchio continente. L’opposto vale negli Usa dove la ripresa si avvia a concludere il suo secondo anno e potrebbe rallentare l’anno venturo (anche senza tener conto dei problemi cinesi): nel caso meglio puntare, gradualmente, su titoli ciclici “ritardatari” e su qualche anticiclico in grado di offrire un buon rendimento anche in termini di dividendi, lasciando tecnologia e finanza solo ad operazioni di trading più che di portafoglio.