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Esteri
Scalfarotto: "Politica estera oscillante, ma l'Italia resterà euroatlantica"

"L'Italia non può dare l'impressione che il suo posizionamento internazionale sia imprevedibile. È come quando guidi un'automobile: se giri, devi mettere la freccia. Chi ti segue deve sapere dove vai. I movimenti repentini, le oscillazioni improvvise, non contribuiscono alla nostra autorevolezza". Ivan Scalfarotto, sottosegretario agli Esteri di Italia Viva, analizza in un'intervista ad Affaritaliani.it la politica estera del governo, in particolare sulle relazioni con la Cina, tornate al centro dell'attenzione dopo le accuse (finora senza prove) di Donald Trump e di Mike Pompeo sull'origine della pandemia da coronavirus.

Ivan Scalfarotto, la pandemia da coronavirus ha riportato al centro del dibattito il posizionamento internazionale dell'Italia. Che cosa sta succedendo a riguardo nel governo?

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Io credo che la politica estera di un Paese debba essere prevedibile, “predictable”, come si dice in inglese. Non si può dare l'impressione di essere contendibili. L'Italia ha sempre avuto una politica estera autorevole per la capacità della sua diplomazia di costruire ponti e rapporti positivi con tutti. Siamo sempre stati protagonisti del dialogo anche in situazioni estremamente complesse, ma ciò non ha mai messo in dubbio la nostra solidissima appartenenza al campo euroatlantico. Questo deve essere un punto inequivocabile e che invece – nonostante le rassicurazioni di rito - è stato messo in discussione.

Viene messo in discussione anche adesso?

Sì. Però voglio sottolineare che per fortuna possiamo fare affidamento su un corpo diplomatico eccellente. Ho conosciuto tantissimi diplomatici durante le mie numerose missioni internazionali (46 in 29 paesi diversi nei miei 24 mesi al Mise): tutti con qualità professionali e umane straordinarie, grazie alle quali conserviamo in tutto il mondo una grande autorevolezza. È stata invece la politica a mettere l'Italia nella condizione di trovarsi in situazioni non desiderabili. 

Da quando l'Italia ha aderito alla Belt and Road si parla molto del posizionamento del nostro Paese tra Stati Uniti, Europa e Cina. C'è un dibattito interno al governo su questi temi?

Ci sono ministri come Amendola e Guerini che sono senza ombra di dubbio su posizioni solidamente euroatlantiche. Si tratta già di un netto miglioramento rispetto al governo precedente dove erano numerosi i sostenitori di Paesi come Cina e Russia. Basti ricordare che il governo precedente non prese una posizione chiara neppure sulla crisi in Venezuela. In parte, ancora adesso c'è un pezzo del Movimento Cinque Stelle che resta su posizioni terzomondiste e chaviste e che sostiene le tesi di Cabras e Di Battista (secondo il quale, vale la pena ricordarlo, “la Cina vincerà la terza guerra mondiale”).

Ma il posizionamento eurotlantico dell'Italia è in discussione nei fatti?

Non lo è. I governi passano, e in Italia lo fanno di solito con una certa velocità, ma le istituzioni restano. La Farnesina non è l'unico luogo in cui si fa politica estera in Italia. Ci sono istituzioni che hanno una storia e una tradizione sicuramente ancorata sull'asse euroatlantico: penso alla Difesa, per esempio, con l’impegno dei nostri militari all'estero, ma non solo. Poi, certo, se la politica fosse più assennata sarebbe meglio, perché spesso si rischiano dei dare dei messaggi che possono avere effetti destabilizzanti anche sull'opinione pubblica. Pensi a quel recente sondaggio secondo il quale per gli italiani il Paese più amico è la Cina (52%) e il principale nemico sarebbe invece la Germania (45%).

Crede che l'adesione alla Belt and Road sia stato un errore?

Ritengo che il progetto non si potesse ignorare, tanto che nel 2017 ero a Pechino con Paolo Gentiloni – unico capo di governo del G7 - al primo “Belt and Road” forum. Il problema sono stati i modi, e in particolare il “Memorandum of understanding”, un documento che non era davvero necessario firmare e che ha dato un risvolto politico a un'operazione che doveva restare nel solco esclusivo delle relazioni commerciali. Mi chiedo per esempio quanto essere stati ritenuti un Paese con delle “sbandate” filo cinesi possa esserci costato in termini di dazi da parte degli Stati Uniti nel caso Airbus. Aggiungo che nostre oscillazioni ci sono state in entrambe le direzioni: prima firmiamo il MoU e poi chiudiamo per primi i voli con la Cina; ci asteniamo sul regolamento sullo screening per gli investimenti esteri (che era stato proposto tra l'altro dal ministro Calenda nel governo Gentiloni) e poi non prendiamo una posizione netta sulla nomina del capo del WIPO (l’organizzazione mondiale della proprietà intellettuale), dove si fronteggiavano una candidata cinese e un candidato di Singapore sostenuto da tutti i Paesi alleati. Insomma, il rischio è quello di essere considerati inaffidabili da tutti.

Non crede che queste oscillazioni siano dovute anche alla "ritirata", non tanto geopolitica quanto dalle organizzazioni internazionali, degli Stati Uniti di Trump?

Di certo l'amministrazione Trump ha portato numerose "innovazioni" nella politica americana. Con l’ “America First” gli Usa si sono scoperti decisamente meno interventisti sul piano internazionale. Ma questo non cambia la valutazione che diamo della democrazia americana sul lungo periodo. Così come le oscillazioni di un governo italiano non cambiano il posizionamento storico del nostro Paese, allo stesso la “novità Trump” non modifica permanentemente il ruolo degli Stati Uniti nel mondo: i governi passano, le istituzioni democratiche restano. Del resto, Paesi come Francia o Germania, pur spesso in disaccordo con l’attuale amministrazione americana, non hanno mai messo in discussione il loro legame con gli USA. Certo, bisogna anche dare nuovo slancio alle organizzazioni internazionali. Si parla tanto dell'Oms in queste settimane ma io – per la mia esperienza nel commercio - penso soprattutto al Wto, che è sostanzialmente paralizzato da anni. 

Come valuta gli attacchi di Trump e Pompeo sull'origine della pandemia da coronavirus?

Io penso che la cosa da fare, quando si parla di scienza, sia far parlare gli scienziati, i quali mi pare che abbiano detto sin qui in maniera inequivocabile che si tratta di un virus naturale. L'Oms ha chiesto alla Casa Bianca di esibire delle prove: in assenza di queste ultime noi non possiamo fare altro, secondo me, che stare alle parole della scienza ufficiale. Altro tema sollevato da parte americana, che non dobbiamo ugualmente trascurare, sono le responsabilità cinesi nella comunicazione iniziale sulla diffusione dell’epidemia e sugli spostamenti dei cittadini provenienti da Wuhan dopo che l’infezione aveva già cominciato a espandersi.

L'Europa e l'Italia riusciranno a mantenere una posizione autonoma sul tema?

Mi pare evidente che ci si trovi in questo momento nel pieno di uno scontro di propaganda, con entrambi gli schieramenti impegnati a cercare di imporre la propria narrativa. Basti pensare anche alla “Via della Seta sanitaria” e alla “Diplomazia delle mascherine” che Pechino sta provando a sfruttare per aumentare il proprio soft power anche da noi. Il nostro dovere è vigilare per evitare che Paesi stranieri possano approfittare della pandemia per tentare di interferire nella nostra vita democratica.

Con le elezioni statunitensi in vista c'è però il rischio che questa tensione tra le due superpotenze non diminuisca. Quale ruolo può e deve avere l'Europa a riguardo?

L'Europa deve evitare di finire schiacciata nel mezzo, ma lo può fare solo se acquisisce una parola unitaria e autorevole. Avere un'Europa che è un gigante economico e un nano politico è un lusso che non ci possiamo più permettere. Non solo in quanto europei, ma anche in quanto italiani. Negli ultimi decenni abbiamo sempre fatto molto affidamento sull’ombrello politico degli Usa, ma ora è il momento che l'Ue si emancipi e mandi un messaggio coeso e coerente. Guardi a che cosa accade con il commercio internazionale: lì l'Europa ha una competenza esclusiva e una voce sola che si fa sentire, assumendo un peso specifico proporzionale alla sua importanza. Se ci dividiamo, perderemo ogni possibilità di influire sui grandi scenari politici mondiali.

Come relazionarsi invece con la Cina?

Vorrei chiarire una cosa: io sono tutt’altro che ostile alla Cina, al contrario. Sono un grande ammiratore di quel Paese, della sua storia e della sua civiltà millenaria, sono affascinato dalla sua complessità e ammirato dai suoi progressi. Penso inoltre che sia un mercato essenziale per i nostri prodotti e un partner molto importante quanto agli investimenti tra i due Paesi. Ci sono stato 11 volte in missione in meno di due anni e ho viaggiato non solo a Pechino e Shanghai ma anche in altre città come Xiamen, Chengdu e Chongqing. Siamo Paesi amici. Credo però che agli amici si debba anche dire con la massima franchezza quando non si è d'accordo su qualcosa. Ha più senso mettere rispettosamente, ma fermamente, sul tavolo alcuni temi, come per esempio quello della reciprocità delle condizioni nel commercio e negli investimenti o quello dei diritti umani, che fare finta di nulla. Anche perché penso che è solo parlando con sincerità che si guadagna rispetto. Bisogna lavorare con tutti e mantenere aperto il dialogo, solo così si può lavorare per avanzare su determinati temi, anche i più spinosi. Tutto ciò avendo ben presente, come ho detto prima, qual è la nostra "casa". 

Crede che l'Italia, anche al di là della politica, abbia gli strumenti per sviluppare questo tipo di relazione con la Cina?

Io credo che spesso si abbia della Cina una visione che mortifica le sue complessità. Non si può procedere per semplificazioni e prendere la Cina tutta per buona o tutta per cattiva o provare a strumentalizzare presunte relazioni internazionali a fini di politica interna. Un Paese così grande e con una cultura così complessa e importante richiede un approccio ad hoc, analisi e valutazioni caso per caso. senza posizioni aprioristicamente positive o aprioristicamente negative. Ci vogliono studio, competenza, rispetto. E un senso molto spiccato della ricerca di soluzioni win-win, che tengano insieme gli interessi del nostro Paese con quelli dello sviluppo di una relazione fruttuosa e prospera con il gigante asiatico.

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