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Esteri
Così l'Unione europea non ha futuro

di Joseph Stiglitz, 24 agosto 2016

Dire che l’eurozona non stia ottenendo buoni risultati, dall’inizio della crisi del 2008, è un eufemismo. I suoi membri hanno fatto peggio dei Paesi dell’Unione Europea che non sono nell’eurozona, e molto peggio degli Stati Uniti, che pure erano stati l’epicentro della crisi.

I Paesi dell’eurozona che se la passano peggio sono impantanati in una depressione o in una profonda recessione; la loro condizione – pensate alla Grecia – è peggiore per molti versi di quella che le economie hanno sofferto durante la Grande Depressione degli Anni Trenta. I membri dell’eurozona che sono andati meglio, come la Germania, sembrano in buone condizioni, ma soltanto a paragone; e il modello della loro crescita è parzialmente basato su politiche del tipo beggar-thy-neighbor (il mendicante che depreda il collega, noi diremmo “a fotti compagno”, NdT), cioè un caso in cui il successo si ha a spese dei precedenti “soci”.

Per spiegare l’attuale stato degli affari sono stati proposti quattro tipi di spiegazione.

Uno. La Germania si compiace di biasimare la vittima, puntando il dito contro la prodigalità della Grecia e, altrove, contro i deficit. Ma questo mette il carro dinanzi ai buoi: la Spagna e l’Irlanda avevano dei surplus e basse quote di debito/pil, prima della crisi dell’euro. Così la crisi ha causato i deficit e i debiti, non il contrario.

Il feticismo del deficit è, non c’è dubbio, una parte dei problemi dell’Europa. Anche la Finlandia ha avuto dei problemi a rispondere ai molti shock che ha dovuto subire, con un pil, nel 2015, all’incirca il 5.5% sotto il picco del 2008.

*Altri critici modello “prenditela con la vittima” citano il welfare state e le eccessive protezioni nel mercato del lavoro come causa del malessere dell’eurozona. E tuttavia alcuni dei Paesi dell’Europa che vanno meglio economicamente – come la Svezia e la Norvegia – hanno i più forti welfare state e le più forti protezioni del mercato del lavoro.

*Molti dei Paesi che attualmente vanno male andavano bene – al di sopra della media europea – prima che fosse introdotto l’euro. Il loro declino non è risultato da un qualche improvviso cambiamento nelle loro leggi sul lavoro, o da un’epidemia di pigrizia nei Paesi in crisi. Ciò che è cambiato è stata la sistemazione della valuta.

Due. Il secondo tipo di spiegazione si riassume nel desiderio che l’Europa abbia migliori leader, uomini e donne che si intendono di più di economia e applicano migliori politiche. Politiche sbagliate – non soltanto l’austerità, ma anche cosiddette riforme strutturali imperfette, che hanno allargato l’ineguaglianza e così ulteriormente indebolito la domanda e la potenziale crescita – hanno indubbiamente peggiorato le cose.  Ma l’eurozona è stata una struttura politica nella quale era inevitabile che la voce della Germania contasse di più. Chiunque abbia avuto a che fare con i politici della Germania nell’ultimo terzo di secolo dovrebbe aver saputo in anticipo quale sarebbe stato verosimilmente il risultato. Cosa ancora più importante, considerati gli strumenti a disposizione, neppure il più brillante zar dell’economia avrebbe potuto far sì che l’eurozona prosperasse.

Tre. Il terzo insieme di ragioni per i cattivi risultati dell’eurozona è una più larga critica da destra dell’Unione Europea, concentrata sulla tendenza degli eurocrati a creare soffocanti regolamenti che proibiscono e impongono. Anche questa critica manca il bersaglio. Gli eurocrati, come le leggi sul lavoro o il welfare state, non sono improvvisamente cambiati nel 1999, con la creazione di un sistema di cambi fissi, o nel 2008, con l’inizio della crisi. Più alla base, ciò che importa è lo standard di vita, la qualità della vita. Chiunque neghi quanto più agiati siamo in Occidente con la nostra aria pulita e con la nostra acqua pulita, dovrebbe visitare Pechino.

Quattro. Questo ci lascia la quarta spiegazione: il colpevole è più l’euro che le politiche e le strutture dei singoli Paesi. L’euro è stato sbagliato sin dall’inizio. Anche i migliori uomini di Stato che il mondo abbia mai visto non sarebbero riusciti a farlo funzionare. La struttura dell’eurozona imponeva un genere di rigidità simile al gold standard. La valuta unica ha tolto ai membri il più importante meccanismo per l’aggiustamento – il tasso di cambio – e l’eurozona ha circoscritto la politica monetaria e fiscale.

In risposta agli shock asimmetrici e alle divergenze in produttività, ci sarebbero dovuti essere aggiustamenti nei reali (considerando l’inflazione) tassi di cambio, nel senso che i prezzi nella periferia dell’eurozona sarebbero dovuti cadere rispetto alla Germania e al Nord dell’Europa. Ma, con la Germania inflessibile riguardo all’inflazione – i suoi prezzi sono stati stagnanti – altrove l’aggiustamento poteva essere realizzato soltanto attraverso una violenta deflazione. Tipicamente, ciò significava una dolorosa disoccupazione e dei sindacati indeboliti; i più poveri Paesi dell’eurozona, e particolarmente i lavoratori all’interno di essi, hanno subito l’impatto più forte del fardello dell’aggiustamento. Così il piano di sollecitare una convergenza fra i Paesi dell’eurozona è fallito miseramente, con crescenti disparità all’interno dei Paesi e fra loro.

Questo sistema non può funzionare e non funzionerà a lungo termine: le politiche democratiche assicurano il suo fallimento. Soltanto cambiando le istituzioni e le regole dell’eurozona si può far sì che l’euro funzioni. Ciò richiederà sette cambiamenti:

1. abbandonare i criteri di convergenza, che richiedono che i deficit siano inferiori al 3% del pil;

2. sostituire l’austerità con una strategia di crescita, sostenuta da un fondo di solidarietà per la stabilizzazione;

3. smantellamento di un sistema tendente alla crisi nel quale i Paesi devono prendere a prestito in una valuta che non è sotto il loro controllo, e fondarsi al contrario su Eurobond o qualche meccanismo simile;

4. una migliore distribuzione del fardello durante l’aggiustamento, con i Paesi che hanno surplus nel loro conto corrente che si impegnano ad aumentare la spesa statale, con ciò assicurando che i loro prezzi aumentino più velocemente di quelli che hanno conti correnti in deficit;

5. cambiare il mandato della Banca Centrale Europea, che si concentra soprattutto sull’inflazione, diversamente dalla Federal Reserve americana, che prende in considerazione l’occupazione, la crescita ed anche la stabilità;

6. stabilire un deposito di assicurazione comune, che impedirebbe alla moneta di fuggir via dai Paesi che vanno economicamente male, ed altri elementi di una “unione bancaria”;

7. incoraggiare, invece di vietare, le politiche industriali destinate ad assicurare che i Paesi europei economicamente in ritardo possano riagganciare i leader della corsa.

Da un punto di vista economico, questi cambiamenti sono piccoli; ma l’attuale dirigenza dell’eurozona potrebbe mancare della volontà politica di realizzarli. Ciò non cambia il fatto fondamentale che l’attuale casa a metà strada è insostenibile. Un sistema che miri a promuovere la prosperità e l’integrazione ha avuto esattamente l’effetto opposto. Un divorzio amichevole sarebbe meglio dell’attuale stallo.

Naturalmente, ogni divorzio è costoso; ma pasticciare a lungo sarebbe ancora più costoso. Come abbiamo già visto in questa estate nel Regno Unito, se i leader non vogliono o non possono prendere le decisioni difficili, quelle decisioni difficili le prenderanno per loro i votanti, e i leader potrebbero non essere molto contenti dei risultati.

(traduzione dall’inglese di Gianni Pardo – in coda l’articolo originale),

 

OBIEZIONI AI 7 RIMEDI SUGGERITI DA STIGLITZ

 

Ho il più grande rispetto per Stiglitz, perché scrive chiaro e veloce, e questo indica un cervello molto ben oliato. Fra l’altro, egli è un economista di fama mondiale, e contestarlo, da parte di un profano, è azzardato. Ma alle sue tesi, e alle obiezioni del sottoscritto, forse potranno meglio rispondere i lettori più competenti.

Mentre infatti sono condivisibili gran parte delle diagnosi, e in particolare le critiche all’euro, si può rimanere scettici riguardo alle soluzioni. Utilizziamo i suoi stessi numeri.

1 Abbandonare il limite del 3% di deficit potrebbe essere un’idea. Ma se i mercati, improvvisamente allarmati, non comprassero più i titoli che un Paese come l’Italia è costretto ad emettere, per far fronte alle scadenze, che cosa lo salverebbe dal default?

2 L’espressione “strategia di crescita” è indeterminata. Quanto al fondo comune di solidarietà, è una bella idea. Ma rimane il problema: nel caso lo si debba utilizzare a favore di qualcuno, quelli che vi hanno contribuito perderebbero il denaro che ci hanno messo? E sono disposti a questo? Gli elettori del Paese che si impegnassero a questo, lo permetterebbero? Ed eventualmente come tratterebbero, in sede di voto, il partito che avesse realizzato questa “opera buona”?

3 Questo punto non mi è chiaro. Gli Eurobond comunque chi li garantirebbe? Perché se dovesse farlo la Germania, varrebbe l’obiezione esposta al punto precedente.

4 Dire alla Germania di provocarsi un’inflazione di cui non ha bisogno, e di cui ha un’atavica paura, dai tempi della Repubblica di Weimar, è tutt’altro che realistico.

6 Il punto non mi è chiaro, ma si parla di fondo di assicurazione comune, dove “comune” significa che, al bisogno, deve pagare la Germania. E siamo alle solite.

7 Incoraggiare è un bel verbo, dal contenuto economico poco chiaro. Se significa – come sembra - deficit spending, vale la prima obiezione.

Sarò grato a chi mi chiarirà le idee.

Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it

26 agosto 2016

 

Joseph E. Stiglitz, a Nobel laureate in economics, is University Professor at Columbia University and Chief Economist at the Roosevelt Institute. This article is presented in partnership with Project Syndicate © 2016.

 

Reform or divorce in Europe

 

24 Aug 2016|Joseph Stiglitz

 

To say that the eurozone has not been performing well since the 2008 crisis is an understatement. Its member countries have done more poorly than the European Union countries outside the eurozone, and much more poorly than the United States, which was the epicenter of the crisis.

The worst-performing eurozone countries are mired in depression or deep recession; their condition—think of Greece—is worse in many ways than what economies suffered during the Great Depression of the 1930s. The best-performing eurozone members, such as Germany, look good, but only in comparison; and their growth model is partly based on beggar-thy-neighbor policies, whereby success comes at the expense of erstwhile ‘partners.’

Four types of explanation have been advanced to explain this state of affairs.

1   Germany likes to blame the victim, pointing to Greece’s profligacy and the debt and deficits elsewhere. But this puts the cart before the horse: Spain and Ireland had surpluses and low debt-to-GDP ratios before the euro crisis. So the crisis caused the deficits and debts, not the other way around.

Deficit fetishism is, no doubt, part of Europe’s problems. Finland, too, has been having trouble adjusting to the multiple shocks it has confronted, with GDP in 2015 some 5.5% below its 2008 peak.

·     Other ‘blame the victim’ critics cite the welfare state and excessive labor-market protections as the cause of the eurozone’s malaise. Yet some of Europe’s best-performing countries, such as Sweden and Norway, have the strongest welfare states and labor-market protections.

·     Many of the countries now performing poorly were doing very well—above the European average—before the euro was introduced. Their decline did not result from some sudden change in their labor laws, or from an epidemic of laziness in the crisis countries. What changed was the currency arrangement.

2   The second type of explanation amounts to a wish that Europe had better leaders, men and women who understood economics better and implemented better policies. Flawed policies—not just austerity, but also misguided so-called structural reforms, which widened inequality and thus further weakened overall demand and potential growth—have undoubtedly made matters worse.

But the eurozone was a political arrangement, in which it was inevitable that Germany’s voice would be loud. Anyone who has dealt with German policymakers over the past third of a century should have known in advance the likely result. Most important, given the available tools, not even the most brilliant economic czar could not have made the eurozone prosper.

3    The third set of reasons for the eurozone’s poor performance is a broader right-wing critique of the EU, centered on eurocrats’ penchant for stifling soffocanti, innovation-inhibiting regulations. This critique, too, misses the mark. The eurocrats, like labor laws or the welfare state, didn’t suddenly change in 1999, with the creation of the fixed exchange-rate system, or in 2008, with the beginning of the crisis. More fundamentally, what matters is the standard of living, the quality of life. Anyone who denies how much better off we in the West are with our stiflingly clean air and water should visit Beijing.

4   That leaves the fourth explanation: the euro is more to blame than the policies and structures of individual countries. The euro was flawed at birth. Even the best policymakers the world has ever seen could not have made it work. The eurozone’s structure imposed the kind of rigidity associated with the gold standard. The single currency took away its members’ most important mechanism for adjustment – the exchange rate – and the eurozona circumscribed monetary and fiscal policy.

In response to asymmetric shocks and divergences in productivity, there would have to be adjustments in the real (inflation-adjusted) exchange rate, meaning that prices in the eurozone periphery would have to fall relative to Germany and northern Europe. But, with Germany adamant about inflation—its prices have been stagnant—the adjustment could be accomplished only through wrenching deflation elsewhere. Typically, this meant painful unemployment and weakening unions; the eurozone’s poorest countries, and especially the workers within them, bore the brunt of the adjustment burden. So the plan to spur convergence among eurozone countries failed miserably, with disparities between and within countries growing.

This system cannot and will not work in the long run: democratic politics ensures its failure. Only by changing the eurozone’s rules and institutions can the euro be made to work This will require seven changes:

1. abandoning the convergence criteria, which require deficits to be less than 3% of GDP;

2. replacing austerity with a growth strategy, supported by a solidarity fund for stabilization;

3. dismantling a crisis-prone system whereby countries must borrow in a currency not under their control, and relying instead on Eurobonds or some similar mechanism;

4. better burden-sharing during adjustment, with countries running current -account surpluses committing to raise wages and increase fiscal spending, thereby ensuring that their prices increase faster than those in the countries with current-account deficits;

5. changing the mandate of the European Central Bank, which focuses only on inflation, unlike the US Federal Reserve, which takes into account employment, growth, and stability as well;

6. establishing common deposit insurance, which would prevent money from fleeing poorly performing countries, and other elements of a ‘banking union’;

7.  encouraging, rather than forbidding, industrial policies designed to ensure that the eurozone’s laggards can catch up with its leaders.

From an economic perspective, these changes are small; but today’s Eurozone leadership may lack the political will to carryu them out. That doesn’t change the basic fact that the current halfwauy house is untenable. A system intended to promote prosperity and ruther integration has been having just the opposite effect. An amicable divorce would be better that the current stalemate.

Of course, every divorce is costly; but muddling through would be even more costly. As we’ve already seen this summer in the United Kingdom, if European leaders can’t or won’t make the hard decisions, European voters will make the decisions for them—and the leaders may not be happy with the results.

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europa





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