Iran, falchi in agguato?
Il risultato che si attendeva da mesi, forse da anni, è arrivato: Teheran e i paesi del gruppo P5+1 hanno raggiunto a Vienna un’intesa sul programma nucleare iraniano. L’accordo è arrivato al termine di una maratona negoziale durata anni e che ha subito un’accelerazione nel 2013. Allo stesso tempo, però, l’intesa rappresenta un potenziale nuovo inizio per le relazioni tra Teheran e Washington, drasticamente interrotte nel 1979 all’indomani della rivoluzione iraniana e della crisi degli ostaggi. In tarda mattinata una conferenza congiunta dei ministri degli Esteri dei paesi 5+1 renderà pubblici i dettagli dell’accordo. Ma sarà davvero intesa storica? Solo il tempo potrà dirlo. Qui di seguito, ripercorriamo le ultime faticose tappe che hanno portato fin qui e cerchiamo di formulare ragionevoli ipotesi su quello che accadrà nei prossimi mesi.
Falchi in agguato?
Per poter entrare effettivamente in vigore, l’accordo necessita dell’approvazione delle parti contraenti. Una delle questioni di cui si è molto parlato come di un possibile ostacolo all’effettiva implementazione dell’accordo è l’opposizione del Congresso statunitense. Gli oppositori dell’intesa – recita la vulgata – sarebbero pronti a fare tutto ciò che è in loro potere per minare alle fondamenta il timido riavvicinamento alla Repubblica islamica, in primis rifiutando di alleviare le sanzioni verso Teheran, vero nodo cruciale dell’intesa. Fermo restando che finché il Congresso non si sarà espresso non è possibile formulare ipotesi concrete, occorre considerare che difficilmente la questione sarà risolta in maniera così automatica. L’impianto sanzionatorio in vigore nei confronti dell’Iran è uno dei più complessi al mondo – una "ragnatela", nella definizione di Kennet Katzman – il cui smantellamento richiederà per forza di cose la volontà di più parti. Ciò però significa anche che nessuna parte detiene il potere assoluto di imporre il proprio volere. Per quanto riguarda i falchi iraniani, nonostante non vi siano certezze, è ragionevole pensare che la conclusione di un accordo sia stata possibile solamente grazie al beneplacito della Guida suprema Ali Khamenei. Pur nell’opacità del processo politico iraniano, è difficile ipotizzare che gli oppositori dell’accordo riescano a scavalcare la Guida.
Perché è stato un processo così difficile?
Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, a ostacolare il processo negoziale è stato il profondo senso di diffidenza tra le parti coinvolte nel negoziato. Non è affatto scontato ricordare il peso dei traumi subiti nel forgiare la memoria storica di una nazione, in questo caso l’Iran. Robin Wright sul New Yorker ripercorre molto bene che cosa la lunga guerra Iran–Iraq abbia significato per Teheran e come essa abbia contribuito a imprimere nel paese una percezione di insicurezza e accerchiamento, tra i motivi alla base della decisione di riesumare un programma nucleare nato ai tempi dello shah e successivamente abbandonato; allo stesso modo, occorre non sottovalutare il trauma vissuto dagli Stati Uniti in seguito alla crisi degli ostaggi del 1979 e ai successivi atti di terrorismo contro gli Usa che hanno visto coinvolto l’Iran. In secondo luogo, a rallentare il processo negoziale – ma anche, paradossalmente, a favorirlo – è stata l’eterogeneità degli attori coinvolti. La diversità di vedute si è resa evidente già all’interno del fronte europeo, con Regno Unito e Germania più inclini al pragmatismo e Francia allineata invece su posizioni più radicali. Se è vero che l’obiettivo comune alle sei delegazioni del P5+1 era quello di porre un argine al programma nucleare iraniano, è vero anche che ciascun paese coinvolto – dalla Russia alla Cina – perseguiva una propria agenda. Agenda che si è dovuto poi incrociare con quella di Teheran, alla ricerca di un compromesso indispensabile. Infine, a mettere in pericolo l’intero processo, sono intervenute le azioni di attori diversi, accomunati dall’obiettivo di far naufragare l’accordo e scongiurare così il pericolo del "ritorno" dell’Iran. A guidare il fronte del "no" troviamo "la strana coppia" Israele–Arabia Saudita: gli ultimi mesi di negoziato sono stati infatti segnati da palesi segni di malcontento, che nel caso di Israele hanno raggiunto il culmine con l’intervento di Benjamin Netanyahu al Congresso americano lo scorso marzo; nel caso dell’Arabia Saudita, con lo schiaffo diplomatico dato dalla mancata presenza di re Salman al summit di Camp David convocato da Obama lo scorso maggio proprio allo scopo di rassicurare gli alleati del Golfo. Altrettanto pressante è stata l’opposizione di attori interni agli Stati Uniti, in primis la compagine repubblicana che vede nell’Iran il principale sponsor del terrorismo internazionale, così come quella di attori interni all’Iran, in particolare gli ambienti più radicali di clero e forze armate.
Centrifughe, colloqui e sanzioni: come siamo arrivati fin qui?
Il negoziato sul programma nucleare iraniano nasce come processo europeo, con Francia, Germania e Regno Unito impegnati a partire dal 2003 a tentare di risolvere la controversa questione. L’anno successivo il coordinamento del negoziato passa nelle mani dell’Alto rappresentante Ue per la politica di sicurezza, all’epoca Javier Solana. Lo scarso successo del negoziato porta Stati Uniti, Cina e Russia, membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu, a entrare a pieno nelle trattative. È così che nel 2006 nasce la formula negoziale del P5+1, che vede dunque coinvolti Iran, Stati Uniti, Cina, Russia, Regno Unito, Francia e Germania. Tra insuccessi e nuove sanzioni si arriva al 2013, vero anno di svolta. L’inasprimento del regime sanzionatorio, con l’entrata in vigore il 1 luglio 2012 dell’embargo UE sulle importazioni di petrolio iraniano, ha sicuramente giocato un ruolo importante nel riportare l’Iran al tavolo negoziale. Di pari passo, l’elezione, nel giugno 2013, del moderato Hassan Rouhani alla presidenza della Repubblica islamica, ha permesso ai due paesi di dare un seguito all’apertura del backchannel diplomatico avvenuta nel marzo 2013 grazie al ruolo di mediazione dell’Oman. Nell’ottobre 2013, a Ginevra, ricominciano dunque i negoziati in formula P5+1, guidati da Catherine Ashton, all’epoca Alto rappresentante UE. Il 24 novembre si arriva a un accordo provvisorio (JPA, Joint Plan of Action) per il congelamento temporaneo del programma nucleare, in cambio di un parziale alleggerimento delle sanzioni. Si decide inoltre di darsi altri sei mesi di tempo per elaborare un accordo più ampio e definitivo. Nel luglio 2014 i negoziatori si accordano per darsi altri 4 mesi di tempo. Il 24 novembre, alla scadenza del negoziato, viene annunciato un ulteriore rimando di sette mesi. Si arriva dunque all’ultima scadenza, quella del 30 giugno 2015. Una scadenza che con ogni probabilità i negoziatori non hanno mai inteso come tale, pronti ad andare oltre pur di assicurare un accordo che soddisfacesse tutte le parti e che fosse in grado di resistere nel tempo.
Ma in concreto cosa cambia?
La valutazione delle conseguenze e dei potenziali effetti dell’accordo è un esercizio che richiede tempo e riflessione. A questo scopo, ISPI sta realizzando il report "Iran after the deal: the road ahead", il cui obiettivo è precisamente l’analisi su molteplici livelli delle conseguenze dell’accordo. Il report, che sarà disponibile da settembre, prenderà in considerazione gli effetti del raggiungimento dell’intesa sul piano interno – una vittoria per Rouhani? – ma anche sul piano regionale e su quello delle relazioni con il nemico storico, gli Stati Uniti, e con l’alleato pragmatico, la Russia. Non mancherà una valutazione tecnica dell’accordo e dei complessi meccanismi da esso innescati, così come l’analisi del potenziale ritorno dell’Iran sui mercati energetici mondiali e di un’eventuale apertura agli investimenti stranieri. Il report si avvarrà del contributo di esperti di fama internazionale, quali Aniseh Bassiri Tabrizi (King’s College), Sarah Bazoobandi (Chatham House e Regent’s University), Claudia Castiglioni (Università Ca’ Foscari), Mariele Merlati (Università degli studi di Milano), Rouzbeh Parsi (Lund University), Clément Therme (Ecole des hautes études en sciences sociales), Ali Vaez (International Crisis Group).
Da ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale