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Gaza, perchè il ritiro di Israele non è una tregua ma l'occhio del ciclone
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Gaza, perchè il ritiro di Israele non è una vera tregua, ma solo l'occhio del ciclone

Oggi, su tutte le testate giornalistiche del mondo, rimbalza la notizia del ritiro delle truppe israeliane dal sud di Gaza. Una decisione sorprendente per molti ma non per tutti. Qualcuno esulta, leggendolo come un timido segno di distensione. Altri invece temono sia la tregua prima della tempesta.

Dopo aver minacciato per settimane di invadere Rafah e “portare a termine il lavoro”, l’esercito israeliano ha ricevuto l’ordine di ritirarsi dal Sud della Striscia. Il ministro della difesa Gallant ha subito precisato che la decisione si è resa necessaria per “preparare nuove operazioni militari, compresa quella di Rafah, la cui invasione” - ha tenuto a chiarire - “non è in discussione”. L’esercito israeliano ha anche ridotto i contingenti presenti nella zona centrale della Striscia. “Non significa che la guerra sia finita” - ha precisato Netanyahu - “ma che semplicemente è cambiata la strategia militare”.

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Fonti dell’esercito fanno sapere che “dopo quattro mesi d’intensi combattimenti nella zona di Khan Yunis, tutti gli obiettivi che ci eravamo prefissati in quell’area sono stati raggiunti. Ora serve un momento per riposarsi e riorganizzarsi in vista dell’incursione su Rafah”. Una pausa che serve anche a fare in modo “che la popolazione sfollata torni gradualmente alle proprie case più a nord, svuotando almeno in parte la città meridionale”, spiegano le stesse fonti.

La prima domanda che viene da farsi a chiunque conosca la reale situazione nella Striscia è: a quali case può mai fare ritorno l’oltre milione e mezzo di sfollati a Rafah? La maggior parte degli edifici pubblici e privati sono stati polverizzati, distrutti scientemente con bombe, missili e cariche esplosive e in alcuni casi addirittura spianati con i buldozzer, come nel caso di ospedali, scuole e università? A quali case l’esercito israeliano dunque si riferisce? Domanda non di poco conto dal momento che nella Striscia nulla è più “com’era e dov’era”. Le poche case rimaste in piedi sono state razziate e saccheggiate dall’esercito che non si è fatto scrupoli di rubare e portare via quello che non ha vandalizzato e distrutto.

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La verità è che da Rafah in su, verso il nord della Striscia, è tutta una distesa di desolazione e morte. Sei mesi di sistematica distruzione delle città, delle infrastrutture, delle strade, delle condutture dell’acqua, di quelle elettriche, delle fogne, degli edifici, di interi isolati, condomini, case, casette, financo i capanni degli attrezzi, per non parlare della profanazione di decine di cimiteri, intere distese di campi coltivati, frutteti, uliveti, hanno reso ¾ del territorio palestinese di Gaza un deserto nel quale non è più possibile vivere.

A cosa diamine dovrebbero dunque fare ritorno i disgraziati sopravvissuti alle bombe e alla fame? A un inferno dei vivi, nel quale, con macabra ironia, il governo e l’esercito israeliano dicono potrebbero trovare la salvezza.

Siamo nella più atroce e inimmaginabile delle distopie. Con l’aggravante che a concepirla sono i discendenti dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. Ebrei per lo più dell’Europa dell’Est, sbarcati a fiotti prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che le stragi dei nativi, perché questo sono i palestinesi in Israele, hanno iniziato a perpetrarle ancora prima della proclamazione dello stato di Israele. Domani ricorre l’anniversario della madre di tutte le stragi: quella del villaggio arabo di Deir Yassin, a pochi chilometri da Gerusalemme, nel corso della quale un commando di 132 terroristi appartenenti al gruppo Stern e dell’Irgun, all’alba del 9 aprile 1948, trucidarono con una barbarie mai vista 250 uomini, donne, bambini, alcuni prelevati direttamente dai ventri delle giovani madri incinte. Eliyahu Arieli, veterano della Brigata ebraica, fra i primi ad arrivare sul posto quel mattino, fremendo d’orrore dichiarò senza mezzi termini: “I morti che ho trovato erano tutte vittime innocenti. Non uno di loro è caduto con le armi in pugno”. E quella fu solo la prima di una interminabile serie di massacri. Andrebbe ricordato sempre quando vengono elencate le altrettanto barbare stragi compiute dai gruppi terroristi palestinesi.

Buoni e cattivi stanno dall’una e dall’altra parte delle barricate. La storia non è mai stata così poco maestra e così tanto ignorata come in questi ultimi tempi. Ostinarsi ad analizzare il presente come se l’apice del conflitto fosse la finale di un campionato di calcio non solo semplifica ai minimi termini una questione ormai secolare e complessa, ma rischia di vanificare quel poco di buon senso, diplomazia e capacità di mediazione rimasta sul campo.

In pochi poi oggi sembrano ricordare che nell’ultimo mese, alla velocità della luce, mentre spianava ospedali e infrastrutture, l’esercito di Israele ha costruito un’ampia strada che da est a ovest taglia in due l'enclave palestinese, fino alla costa del Mediterraneo. La prima a denunciarlo è stata la Cnn, grazie a una sua attenta analisi condotta su delle immagini satellitari. Conosciuta come 'Corridoio Netzarim', secondo l'emittente statunitense, che a sua volta cita da fonti di funzionari israeliani “farebbe parte di un piano di sicurezza che permetterà a Israele di controllare il territorio per i mesi e forse per anni”.

Alla luce di tutto questo di può dunque prender fiato ma non certo tirare un bel sospiro di sollievo. Il futuro non è mai stato così incerto. A maggior ragione adesso che sembra intravedersi una tregua, che a molti di noi sembra più realisticamente l’occhio del ciclone.



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