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Indagine Oof: come ridurre l'impatto sull'ambiente di un'industria della moda

Un'industria che genera un fatturato annuo globale di oltre 2,5 trilioni di dollari[1, che impiega più di 300 milioni di persone in tutto il mondo[2] e svolge un ruolo fondamentale nella vita sociale e culturale di ognuno di noi. Questo l’identikit di una delle più grandi, e inquinanti, industrie manifatturiere a livello globale: la moda. Come ridurne l’impatto ambientale e renderla più sostenibile? One Ocean Foundation (OOF) cerca di rispondere con Business for Ocean Sustainability - The Fashion Industry, l’indagine realizzata in collaborazione con Sda Bocconi Sustainability Lab e il patrocinio di Camera nazionale della Moda italiana, che presenta una proposta di sette linee guida per un’industria sostenibile della moda.

L’altra faccia della moda                                                                                                                                      L’aumento della ricchezza, la crescita della popolazione e la diffusione di nuovi modelli di consumo come il fast fashion sono solo alcuni dei fenomeni strutturali e generazionali dell’industria della moda, responsabili delle pressioni esercitate sull’ambiente e, in particolare, sulle acque del pianeta. Basti pensare che i solventi e i coloranti impiegati nel lavaggio e nella produzione dei capi sono responsabili di circa il 20-25% dell'inquinamento delle acque industriali, che il 35% delle microplastiche nell’oceano proviene da tessuti sintetici e che sono all’incirca 1400 trilioni le microfibre che inondano i nostri mari, rendendoli tossici.

 

Secondo l’analisi di One Ocean Foundation Business for Ocean Sustainability - A Global Perspective – presentata lo scorso 8 giugno all’UN World Oceans Day e che ha coinvolto un team di 56 scienziati, studiosi ed esperti internazionali – l’industria  dell'abbigliamento mostra un impatto determinante, non solo quando si parla di microplastiche, ma anche in riferimento a 4 degli 11 Good Environmental Status Indicators come rifiuti marini, eutrofizzazione, contaminanti dispersi nelle acque e nel cibo. Responsabile dal 4% al 10% delle emissioni globali di CO2 – di cui il 30% viene assorbito dagli oceani - l'industria della moda supera l'impronta di carbonio dei voli internazionali e del trasporto marittimo, pari circa alla stessa quantità totale di gas serra emessa ogni anno da Germania, Francia e Regno Unito messe insieme[3]. E, negli anni a venire, la situazione potrebbe peggiorare, se si considera che nel decennio in corso si prevede un incremento di oltre il 63% del consumo globale di abbigliamento: da 62 milioni di tonnellate nel 2019 fino a 102 milioni di tonnellate nel 2030.

Oggi non è più il momento di interrogarsi se valga la pena agire; un’esistenza senza i preziosi benefici che il mare ci dona, per il nostro benessere e la nostra salute, legati a doppio filo alle condizioni ambientali, sarebbe semplicemente impensabile. Oggi è il momento dell’azione, interrogandosi sui passi necessari per invertire la rotta verso una strategia di profitto che sia sostenibile e abbia a cuore la salute delle nostre acque. Il fatto che Camera della Moda abbia offerto il patrocinio per il nostro studio mostra come l’industria del fashion abbia compreso quest’urgenza e come intenda dedicare energie e impegno per cambiare lo status quo”, commenta Riccardo Bonadeo, vicepresidente di One Ocean Foundation. 

Le sette linee guida per un’industria sostenibile della moda                                                                                Come rendere l’industria della moda più sostenibile? Lo studio di One Ocean Foundation, condotto attraverso un’analisi approfondita dei report di sostenibilità di 28 aziende del fashion,[4] sostiene che è possibile. Il presupposto di base, suggerisce la ricerca, è la necessità di abbandonare la convinzione che l’impatto del settore sull’ambiente sia circoscritto alla sola fase produttiva (manifacturing): lo studio persegue infatti la necessità di mantenere uno sguardo olistico, alla ricerca di un approccio integrato, che interessi tutte le fasi della value chain: dall'estrazione delle materie prime, al consumo, fino ad arrivare allo smaltimento del prodotto.

Ad attraversare queste fasi, le linee guida per un’industria della moda che sia realmente sostenibile: fare ricorso a una pianificazione strategica, cruciale per determinare il proprio impatto ambientale, definire obiettivi concreti, implementare le iniziative lungo tutta la value chain e monitorare i risultati; adottare pratiche sostenibili in fase di coltivazione e produzione delle materie prime; ripensare i modelli e gli imballaggi, dalla progettazione alla produzione, fino allo smaltimento; migliorare la sostenibilità della filiera logistica per una riduzione delle emissioni di CO2. Ed ancora, sensibilizzare i propri clienti verso comportamenti di consumo sostenibili, attraverso modelli di business innovativi e precise indicazioni per la cura degli indumenti; svolgere attività di ricerca e sviluppo in ogni fase della value chain; garantire trasparenza e tracciabilittà dei prodotti, favorire partnership virtuose e adottare standard e certificazioni per rafforzare e ufficializzare il proprio impegno in materia di sostenibilità.

Best practice che alcuni brand dell’industria, in alcuni passaggi specifici della value chain, hanno già iniziato ad adottare con successo. Tra i casi più virtuosi rientrano ad esempio quello di Patagonia, che nella scelta della materia prima per la produzione delle tese dei cappelli (fase una della value chain: materie prime e produzione) ha fatto ricorso a materiali riciclati, come NetPlus, un materiale interamente ricavato dalle reti di pesca dismesse e raccolte da una comunità di pescatori in Sud America. Ma anche di Asos, che ha lanciato una collezione interamente ispirata ai principi dell’economia circolare (fase due della value chain: progettazione). Oppure, ancora, di Benetton Group, che ha realizzato una guida per spiegare ai consumatori come prendersi cura dei propri capi per farli durare più a lungo (fase quattro della value chain: consumo e utilizzo).

 

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