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Lavoro
Giovani e lavoro. Sbandi: la comunicazione è il futuro
[Photo credit to © Patrizia Tocci]

All’università ha studiato comunicazione («Sai il pregiudizio che c’è, no? Tanti dicevano che non avrei combinato nulla»). Poi ha lavorato a Roma, San Francisco e Milano. E’ consulente digitale per agenzie e startup, tech blogger per il Fatto Quotidiano, ospite su RaiDue in qualità di esperto di social media. Classe ’90, Federico Sbandi spiega ad Affari Italiani perché la comunicazione è il futuro del lavoro. E perché, sempre di più, serviranno «abili comunicatori».

 

Come si arriva a lavorare nel campo della comunicazione digitale?

«Tocchiamo subito un punto: c’è una sorta di voragine tra quello che le università provano a insegnare e quello che il mondo del lavoro richiede. Troppi studenti credono di dover conseguire un titolo di studio da sventolare all’aria per ottenere un posto. Nel mercato del lavoro c’è una domanda e un’offerta: e per intercettarla servono competenze, non titoli. Bisogna chiedersi come poter acquisire queste competenze. Mentre frequenta l’università, qualunque siano i suoi interessi, uno studente dovrebbe fare di tutto per entrare in un progetto extra-accademico, per cominciare a collaborare nel settore della comunicazione, a prendere contatto con realtà professionali (aziende, startup, enti locali, per esempio). Un percorso parallelo è fondamentale per crescere professionalmente. Perché? Così in tasca, oltre il titolo, si ha esperienza. Il bello del 2017 è questo: non c’è bisogno del permesso di qualcuno per iniziare a lavorare. Puoi farlo».

Bisogna sporcarsi le mani mentre si studia.

«Essere responsabili di un sito, in proprio o in gruppo; avviare piccole piattaforme editoriali on line; occuparsi della comunicazione sui social network a livello aziendale; gestire piccoli fondi pubblicitari che magari vent’anni fa sarebbero state destinate al volantinaggio: tutte attività che ti costringono a imparare, a ficcare il naso dove in futuro potrebbe esserti chiesto di lavorare. L’università dà competenze di base, la pratica ti permette di formarti e migliorare».

Sotto questi punti di vista, in Italia, i ragazzi sono indietro rispetto ad altri paesi?

«Più che a livello accademico, direi, c’è un ritardo a livello di mentalità. Nelle università statunitensi di comunicazione o marketing, per esempio, il valore aggiunto è certamente il network, ma anche lì non è possibile munirsi tutte le competenze necessarie, reali e concrete. Il mondo della comunicazione si è evoluto – e continua a evolversi – molto velocemente. E l’università non è al passo coi tempi un po’ dovunque. In Italia dovremmo capire che non basta presentarsi in un’azienda con un 110 e lode. Quasi tutti possono uscire con un bel voto. Ciò che fa la differenza è l'aver investito il proprio tempo anche fuori dalle aule: spinti dalla motivazione, dalla voglia di mettersi in gioco, e magari anche senza un ritorno economico. Quando altri tuoi compagni si fermavano al Pub, magari, o davanti a Netflix».

Si parla di automazione, di lavori che spariranno. Tu sei ottimista, invece. 

«L’automazione ci sarà, inutile negarlo. E ci sarà sempre meno bisogno di lavoro manuale. Però esistono dei lavori che sono senz’altro rivolti alla sfera delle competenze umanistiche. Ancor prima di quella tecniche. Lavori che non verranno mai sostituiti, e anzi verranno creati. Oggi, tutte le realtà commerciali che si affacciano sul web (e dovranno farlo) necessitano di persone che curino gli aspetti della comunicazione digitale. Persone, non macchine. Per questo sono positivo. Ma bisogna essere reattivi, trovarsi nel posto giusto con l’idea giusta: allora il lavoro c’è».

Facciamo un esempio.

«Il mondo cambia, e diventa più complesso. Pensiamo alla pubblicità. Negli anni ’60 un’azienda per promuovere il proprio brand faceva uno spot di 60 secondi: “Compra la mia torta”. E veniva acquistata. Poca concorrenza, esigenze semplici. Era diversa la tipologia dei consumatori. Oggi c’è più spirito critico, ci sono più anticorpi rispetto ai prodotti che non convincono, più esigenze. E soprattutto alcune tecniche prima appannaggio esclusivo di grandi marchi, come tecniche di storytelling e branding, sono necessarie anche solo per mandare avanti una pizzeria. Se nel 2017 apri la pagina Facebook di una pizzeria non puoi invitare i clienti (tutti giorni) con pubblicità spam, invasiva. Devi invece saper raccontare perché lo hai fatto, le ricetti che usi, la loro storia. Devi raccontare il contesto, devi creare “valore” ai tuoi prodotti. Attirare l’attenzione dei clienti è diventato fondamentale, e genera lavoro. Ci sarà sempre più bisogno di abili comunicatori».

Hai scritto: la radio ha fatto vincere Franklin Delano Roosevelt, televisioni e giornali di carta hanno Silvio Berlusconi, Facebook ed email marketing Barack Obama. E senza social network Trump non sarebbe mai diventato Presidente degli Stati Uniti. Quale futuro per la comunicazione politica?

«Al crescere dell’incidenza dei social network, decresce l’importanza dei giornali. Non c’è più bisogno del New York Times quando esistono canali personali di informazione. Canali dove vengono pubblicate notizie su argomenti controversi che sono riprese (proprio perché controverse) dagli stessi giornali. Che succede, allora? Che si crea un' esposizione totale su alcuni temi – sottolineo: in modo gratuito - che poi catturano l’attenzione di gente sensibile a un certo tipo di messaggio. Nel caso di Trump c’erano persone interessate a un messaggio xenofobo, chiuso: che i social hanno veicolato. Trump ha ricordato a tutti che in determinati momenti storici alcuni mezzi di comunicazione prevalgono su altri. Berlusconi in Italia ha sfruttato il peso della tv. I 5stelle ottengono risultati perché sono forti sul web. E Trump, la persona più potente della terra, oggi può fregarsene dei media tradizionali».

Un cortocircuito per il giornalismo?

«Le redazioni giornalistiche sono in difficoltà perché la gente è sempre meno incline a pagare per leggere una notizia. Tante fonti hanno depotenziato il ruolo del giornalista. La carta, poi, rischia di essere spazzata via dal mercato: non rendersene conto significa vivere fuori dalla realtà. Cosa succederà quando chi continua a non scegliere il web, quindi i più anziani, non ci sarà più? Dovrebbero essere trovate formule che possano attrarre le nuove generazioni. Sono fatti, non giudizi di merito. I giornali non hanno capito come vendere il proprio prodotto. Vanno avanti in perdita. C’è ancora la percezione di scrivere per dare il pane quotidiano ai lettori: invece in un’economia di mercato concorrenziale, senza sovvenzionamenti pubblici o privati, molti avrebbero già chiuso. Per un ragazzo è frustrante seguire questa strada. Quello del giornalismo è un mondo da rinnovare».

Tre cose che un giovane universitario non dovrebbe fare?

«Primo: non pensare di stare all’università solo per dare gli esami. Significa giocare una partita piccola all’interno di una partita più grande. Prendere 30 per far contenta la mamma a casa e sentirsi soddisfatti è un approccio sbagliato. Dall’università si può prendere e rubare molto di più. Secondo: non fare un percorso esclusivamente individuale. E’ necessario fare network: coi professori più brillanti, coi compagni più dinamici, attivi. Creare rapporti è sempre un bene: a livello lavorativo, e formativo. Terzo ( e ultimo): non vedere nei docenti il nemico che sale in cattedra per interrogarti e rovinarti la giornata. Non funziona così. Come abbiamo detto, possano esserci docenti che ti danno poco; altri che ti forniscono spunti, consigli. Che possono essere ponti relazionali per un futuro lavorativo».

Probabilmente l’80% degli studenti non segue questi consigli, però.

«Forse anche di più». 

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