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“Quello che so di te”: il romanzo della Terranova tra i favoriti dello Strega
Il tema della malattia mentale e quello della maternità non edulcorata: Nadia Terranova in cinquina al Premio Strega con Guanda

Finalista al Premio Strega 2025, Quello che so di te è il romanzo più intimo e spietato di Nadia Terranova. Pubblicato da Guanda e presentato da Salvatore Silvano Nigro, il libro si impone nel panorama letterario per la sua capacità di unire introspezione, memoria e denuncia, affrontando con sguardo limpido e senza edulcorazioni i temi della follia e della maternità.
C’è una frase che potrebbe contenerne il cuore: «Mi sporgo verso la culla, guardo giù dentro il cratere. In quel momento, dentro quel preciso nulla, capisco cosa non potrò mai più permettermi di fare. Impazzire». Questo cratere è la maternità, e il rischio che lo accompagna è la vertigine della follia, che nel caso della protagonista-autrice ha un nome preciso: Venera, la bisnonna internata nel manicomio di Mandalari a Messina, matricola n. 12.283.
Terranova non si limita a raccontare una storia, ma affronta un’indagine esistenziale. Il suo stile, insieme lirico e analitico, disegna un prisma dove ogni riflesso moltiplica la verità. La narrazione si articola su piani temporali e stilistici differenti: autobiografia, memoir familiare, metaletteratura e incursioni nella storia della psichiatria si intrecciano con coerenza e forza espressiva. Il risultato è un romanzo composito, vibrante, che fa della discontinuità una cifra stilistica e della complessità la sua verità.
Come ha scritto Romana Petri, «Venera è personaggio che non dimenticheremo. Lei ne dà più di una versione», e in effetti tutto il libro è un gioco di rifrazioni: «Dentro le storie di famiglia spesso è difficile stabilire certezze perché vengono da decenni di omissioni, falsificazioni e dimenticanze». È questa la “Mitologia Familiare” che Terranova tenta di smontare, decostruendo il silenzio per ricreare un’identità.
La follia, tuttavia, non è qui una categoria clinica. È piuttosto un trauma trasmesso, un’eredità emotiva che scorre attraverso i legami di sangue come una corrente carsica. La bisnonna Venera, schiacciata dalla perdita e dal lutto, è divenuta il simbolo di una sopravvivenza muta. «Non sono stata una buona madre, non sono morta abbastanza», scrive Terranova, immaginando il rimorso di una donna annientata da un dolore troppo grande per essere contenuto nel linguaggio.
Accanto alla follia, si affianca un altro fulcro narrativo: la maternità. Ma qui essa viene trattata con radicale onestà, spogliata da ogni retorica. «I giorni dopo il parto sono una valle scoscesa», scrive l’autrice. Nella sua esperienza non c’è glorificazione, ma un senso costante di inadeguatezza, di panico latente, di angoscia per ciò che si può trasmettere, anche involontariamente, ai propri figli.
«Come si torna a scrivere dopo un parto, come si continua a essere spietati sulla pagina?», si chiede. E risponde: «Un padre e una madre li puoi distruggere, un figlio lo devi soltanto salvare». Questo senso del limite è ciò che nobilita il suo femminismo: non militante, ma compassionevole, capace di accogliere il fallimento e la fatica del vivere, senza sconti né giudizi.

Lo stile della Terranova si fa specchio di questa complessità: vibrante e terso, a tratti lirico, spesso ruvido. Come scrive Marco Belpoliti, «una scossa elettrica percorre l’intero racconto». La struttura stessa del romanzo — priva di linearità, frammentaria, stratificata — riflette l’andirivieni tra presente e passato, realtà e sogno, parola e silenzio.
La narrazione dà spazio anche agli uomini, tratteggiati con pudore e profondità. Indimenticabile è la scena in cui il marito di Venera, escluso dalla possibilità di un contatto fisico con lei, la osserva attraverso uno spioncino, prigioniero quanto lei di una distanza incolmabile. E così si compie una delle magie del libro: il dolore privato si fa dolore universale, e il romanzo diventa una cartografia affettiva che abbraccia tutte le fragilità umane.

L’autrice, in un’intervista ad Affaritaliani.it, afferma: «In questi anni è nata mia figlia e io sono nata almeno altre cento volte come scrittrice e come persona». E proprio un simile processo di rinascita continua, di trasformazione interiore, ha reso questo romanzo per lei necessario, persino profetico. «Scrivere è creare un incantesimo; se lo scrivo accade. Scrivere è spezzare un incantesimo: se lo scrivo, non accade più», dichiara in un passaggio folgorante.
Nadia Terranova, nata a Messina e oggi residente a Roma, ha già calcato le scene del Premio Strega nel 2019 con Addio fantasmi. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Elio Vittorini. Con Quello che so di te affronta il tema più delicato: la genealogia del dolore. Non si accontenta di raccontare la sua storia, ma si addentra nei meandri di ciò che ereditiamo senza volerlo, nel groviglio di emozioni che legano le generazioni, nel mistero delle parole che nessuno ha mai avuto il coraggio di pronunciare.
E lo fa con un’opera che è insieme ricerca, elegia, esorcismo. Un romanzo che non ha paura di fallire, e proprio per questo ha la forza per vincere il Premio Strega.