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Delitto Tobagi, se Gad Lerner fa il "buonista" con i familiari degli assassini

Di Pietro Mancini

I giovani, spietati assassini di Walter Tobagi, ucciso nel 1980, a 33 anni, non erano degli sbandati, ma “figli di papà”-distratti nell’educazione dei figli-della medio-alta borghesia milanese radical chic-convertiti al bolscevismo, senza neppure conoscerlo. I responsabili dell’agguato-oggi li definiremmo “haters”- pagarono per il delitto con pochi anni di prigione, grazie alle leggi “premiali”, varate per favorire quanti davano contributi utili (non forniti, peraltro, dagli assassini di Walter)alla cattura dei “compagni assassini”.

Gad Lerner, all’epoca militante di “Lotta continua”, ha “assolto” i genitori dei terroristi, osservando che sarebbe “troppo facile addebitare colpe, che non hanno, alla bellissima famiglia Barbone” (di Marco, quello che sparò a Tobagi) o a quella del suo complice, Morandini.

Molto meno “buonista” di Lerner è un coetaneo ed ex collega di Walter, Riccardo Chiaberge, che ha denunciato la “accondiscendenza e la lettura ideologica di quell’epoca tragica, a 40 anni dall’omicidio, compiuto da un “manipolo di dementi e di criminali, che si atteggiavano a eredi dei partigiani comunisti”. L’articolo di Chiaberge, su Linkiesta.it, approfondisce l’analisi sulle responsabilità dei “cattivi maestri”, dei partiti, dei sindacati. “Quando fui assunto dal gruppo “Corriere”, nel ’78, un caporione del sindacato mi chiese, a brutto muso: «È vero che sei amico di Tobagi ? Non ti vergogni ?». Il padre di uno degli assassini di Walter, Morando Morandini, critico cinematografico de “Il Giorno”, racconta Chiaberge- bocciando l’oblio, chiesto da Lerner-firmò, insieme ad altre 756 persone, il famigerato appello sul caso Pinelli, pubblicato da “L’Espresso” il 13 giugno del 1971 . Era un testo vibrante sdegno contro le presunte, mai dimostrate, responsabilità del commissario Luigi Calabresi, nella morte dell’anarchico, interrogato in Questura, dopo la strage nella Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana, il 12 dicembre del 1969.

C’era, praticamente, l’élite della cultura italiana, al gran completo, in quella lista: Fellini, Moravia, Pasolini, Bertolucci, Lalla Romano, Natalia Ginzburg, perfino Bobbio, Gae Aulenti, Scalfari e, naturalmente, Dario Fo. Tutti uniti, in un «atto di ricusazione», contro le autorità inquirenti e, in particolare, contro il commissario di Polizia, Luigi Calabresi, additato come responsabile della morte dell’anarchico: «Una ricusazione di coscienza-si leggeva nel testo-rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni», di cui si chiese «l’allontanamento dai loro uffici».

Con quel documento, l’intellighenzia progressista si rese, più o meno involontariamente, complice della campagna d’odio, scatenata contro Calabresi dai gruppi dell’estrema sinistra e in particolare dal giornale “Lotta Continua”.

Una campagna che, un anno dopo, costerà la vita al funzionario della PS : per il delitto, sono stati condannati, in via definitiva, Sofri, Bompressi e Pietrostefani.

Nel 1989, Giampiero Mughini, uno degli ex direttori responsabili di Lotta Continua, scrisse una lettera aperta al figlio del commissario, Mario, riconoscendo l'innocenza del padre e gli eccessi accusatori del suo giornale.

L'inchiesta sulla morte di Pinelli fu condotta dal magistrato progressista, Gerardo D'Ambrosio che, nell'ottobre del 1975, escluse sia l'ipotesi del suicidio – emersa, nei primi tempi, dalle testimonianze dei poliziotti, ma che si rivelò infondata, quando si verificò la solidità dell'alibi di Pinelli – sia quella dell'omicidio.

Enrico Deaglio, che fu prima redattore e poi direttore di “Lotta continua”, nel libro “La bomba. 50 anni da Piazza Fontana” (Feltrinelli), esalta quella lettera, definendola «uno dei più notevoli atti di democrazia, di dissenso, di coraggio e di civiltà, che sia stato espresso, dalla nascita della Repubblica… Era il J’accuse italiano, che non chiedeva vendetta e nemmeno punizioni».

Il giornalista dimentica che Calabresi era definito “un torturatore e, implicitamente, un assassino”. E insinua che l’uccisione del commissario sia stata, in realtà, un diversivo, per sabotare l’inaugurazione, prevista proprio quel giorno, martedì 17 maggio 1972, di una mostra, “sgradita al potere”: il grande dipinto, dedicato da Enrico Baj ai funerali dell’anarchico Pinelli.

L’inaugurazione saltò e «per 40 anni i milanesi non poterono vedere l’opera».

Una incredibile coincidenza, sottolinea Deaglio, la cui narrazione non è convincente, in primis sul delitto Calabresi. Pietrostefani è ancora latitante a Parigi e potrebbe aiutarci a fare chiarezza. Nel suo ultimo libro (“La mattina dopo”, Mondadori), il figlio del commissario ucciso, Mario Calabresi, ex direttore de “La Repubblica”, racconta di averlo incontrato, ma non rivela cosa si siano detti.

Come Chiaberge, non condividiamo l’accostamento, fatto da Deaglio, tra il celebre “J’accuse”, la lettera aperta al Presidente della Francia, vergata da Émile Zola sulla vicenda del capitano Alfred Dreyfus-accusato, ingiustamente, di aver tradito l’esercito francese, uno degli episodi più controversi della storia occidentale tra XIX e XX secolo-e il documento anti-Calabresi.

L’autore del “J’accuse” fu condannato a un anno di carcere e a tremila franchi di ammenda, per vilipendio delle forze armate. Gli “indignati” della lettera al settimanale di Scalfari hanno fatto brillanti carriere.

Tobagi, appartenente a un’area, quella riformista-di cui si avverte l’assenza-non firmò l’appello e venne trucidato, in una piovosa mattinata di maggio del 1980. Oggi, come hanno scritto Ferruccio de Bortoli e Vittorio Feltri, avrebbe potuto dirigere il “Corriere della Sera”. Avrebbe, purtroppo...

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