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Intelligence, strumento di conoscenza. Le innovazioni del modello Russia-Cina

"Le agenzie di intelligence in Occidente non sono un potere autonomo, a differenza di quanto accade in nazioni meno democratiche". Parla Luigi Sergio Germani
Appreso tutto ciò, fare intelligence significa dunque pensare in anticipo alle contromosse?
Certamente, e non solo in termini di difesa ma anche di attacco: di qui l’urgenza di sviluppare anche da noi – in Europa e in Italia – una vera e propria base culturale per intelligence e counter-intelligence. Manca molto pure a livello istituzionale, dove le lacune sono pericolose: perché se non si dispone degli strumenti conoscitivi adeguati per rispondere, inevitabilmente si subisce.
In Italia se ne parla da anni, fondamentalmente dai tempi della Legge sull’Intelligence del 2007: senza dubbio c’è dibattito a livello universitario, nondimeno una vera e fattiva opera di diffusione “urbi et orbi” non è ancora stata perorata, rimanendo il tutto relegato a pochi eletti.
Anzi, va detto come fino a pochi anni or sono l’intelligence, in Italia, venisse persino concepita come attività turbativa, predatoria. Lo è, certo, ma per finalità che concernono l’interesse nazionale, specie oggigiorno, di fronte a sfide asimmetriche che vanno dalle minacce ibride, alla minaccia terroristica sino alla guerra batteriologica. Ritengo che questa visione non obiettiva, questo pregiudizio di criminalità e devianza che ha corrotto la coscienza e la percezione collettiva risalga ai tempi della Guerra Fredda, quando Mosca infiltrava in Italia suoi accoliti con la complicità del Partito Comunista. Qui è nato il filone dei servizi segreti ritenuti deviati, in parte ridimensionato negli ultimi anni ma rispetto al quale, tuttavia, permangono ancora sacche di preconcetta resistenza.
Serve – e serve urgentemente – una cultura diffusa dell’intelligence, come esiste in Israele, in cui i servizi si aprano (per quanto possibile) alla cittadinanza, sensibilizzando l’uditorio e coinvolgendolo nella lotta ai pericoli emergenti. È necessario anestetizzare reticenze e diffidenza.
Professor Germani, a maggior ragione dopo l’esperienza pandemica del Covid-19 possiamo dire che Intelligence e Ricerca scientifica siano davvero i nuovi strumenti di deterrenza?
Senz’altro, in una prospettiva dove le nuove armi rischiano di essere virus e agenti batteriologici. Occorre perimetrare i baluardi della nostra Democrazia e del nostro Stato di Diritto, che passano anche attraverso la Cultura e dunque le Università. Le minacce sono tante: i servizi di intelligence italiani vanno potenziati e rinnovati.
Ci sono anche rischi di natura interna?
Purtroppo sì: terrorismo, estremismo e criminalità organizzata, che continua a essere un fenomeno molto grave. Anche le organizzazioni malavitose dispongono infatti di strutture di intelligence, usate per inquinare le istituzioni, penetrandovi e cooptandovi strumenti politici e governativi. E se torniamo all’imprinting di Russia e Cina, i loro servizi usano la criminalità organizzata come strumento di ingresso e radicamento negli altri Paesi: un’altra delle minacce più cogenti, un combinato disposto potenzialmente esplosivo per le nostre democrazie. C’è stato ed è ancora in corso un colpevole calo di attenzione da parte dei media: bisogna parlarne se vogliamo che certi concetti si radichino nel sapere e nella coscienza collettiva, incrociando tutti i dati disponibili.
Professor Germani, quale imperativo categorico suggerisce alla Politica e a tutte le Istituzioni italiane in tema di Intelligence e di sensibilizzazione all’Intelligence?
Ci sono tantissimi fronti aperti, per via delle congiunture geopolitiche particolarmente instabili e critiche che stiamo attraversando. In Europa – e in Italia particolarmente – l’intelligence va rinnovata e rafforzata. Non può essere un corpo burocratico che risponde a cavilli e farraginosità di ogni sorta: deve potersi muovere con spregiudicatezza e immaginazione se vogliamo anticipare le mosse del nemico e costruire per la nostra collettività un futuro di maggior sicurezza.