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La sentenza su "Report" lascia a bocca aperta: difendiamo la libertà di stampa

In uno Stato di diritto le sentenze si rispettano, quando sono esecutive, ma nulla vieta di discuterle. Specialmente quando, come nel caso di specie, si mette a rischio un valore fondamentale della democrazia, quale la libertà di stampa.

È quindi necessario esprimere pieno sostegno ai colleghi di “Report”, che intendono ricorrere al Consiglio di Stato (e poi magari anche alla Corte europea dei diritti dell'uomo) contro la sentenza del TAR che impone loro di consegnare all'avvocato Andrea Mascetti tutta la documentazione riguardante la puntata dal titolo “Vassalli, valvassori e valvassini”, andata in onda il 26 ottobre 2020.

A Mascetti, in qualità di ricorrente, è stato riconosciuto il diritto di fare un “accesso agli atti” sui dati che hanno permesso alla redazione di Sigfrido Ranucci di preparare un servizio che lo riguardava, in quanto professionista che ha svolto delle consulenze a soggetti pubblici. A chi conosce anche un po' superficialmente il diritto, la formula “accesso agli atti” avrà certamente provocato un sobbalzo: questo diritto è infatti riconosciuto a chi, interessato da un procedimento amministrativo, ne faccia richiesta, avendone un legittimo interesse.

Facciamo un esempio: se una Pubblica Amministrazione emana un bando per la fornitura di computer, io partecipo in quanto produttore e risulto perdente, ho tutto il diritto di fare il succitato “accesso agli atti” per verificare l'offerta di chi invece ha vinto e tutte le altre carte connesse alla gara, così da accertare che non ci siano stati favoritismi. Questo è chiaramente giusto e, anzi, sarebbe il caso di estendere tale diritto a qualunque cittadino ne faccia richiesta, perché se si tratta di soldi pubblici tutti siamo ugualmente coinvolti. Al momento non è così, ma questo è un altro discorso.

In questo discorso, è veramente sconcertante il fatto che un servizio giornalistico venga considerato alla stregua di un atto amministrativo: sono due attività completamente diverse, normate da regole differenti, e nulla conta il fatto che l'editore di “Report” sia Mamma Rai, che ovviamente è un soggetto pubblico. Con tutto il rispetto, l'attività giornalistica ha il suo specifico normativo, a prescindere da chi sia l'editore: se così non fosse, dovremmo concludere che in Rai non si possano fare inchieste proteggendo le fonti, mentre a Mediaset o a La7 si!

La protezione delle fonti è invece fondamentale per il giornalismo, specialmente se fa inchieste scomode: i giornalisti professionisti (i pubblicisti no) hanno il diritto di opporre il segreto professionale per non rivelare le proprie fonti, anche rifiutandosi di testimoniare in merito nel corso di un processo. Inoltre, lo scorso ottobre la succitata Corte europea dei diritti dell’uomo ha fissato un ulteriore paletto specificando che, ai sensi dell'art.10 della Convenzione europea sulla libertà di espressione, nessuno Stato membro può obbligare un giornalista a rivelare le proprie fonti, malgrado ciò potrebbe essere utile all’autorità giudiziaria per individuare l’autore di un reato.

Perchè sia così importante la protezione delle fonti è di facile comprensione: senza questa certezza, nessuno svelerebbe più ai giornalisti registrazioni, foto, video, documenti e altri materiali fondamentali per far sapere la verità all'opinione pubblica, con una fortissima lesione del diritto dei cittadini a ricevere una corretta informazione.

Giova ricordare che, sempre lo scorso ottobre, l'Italia si è piazzata solo al 41° posto nella classifica della libertà di stampa redatta annualmente da Reporter Without Borders: peggio di Giamaica, Namibia, Costa Rica, Ghana e Burkina Faso, ma meglio dei due anni precedenti, nei quali avevamo un rating persino più scarso.

Anche per questo, bisogna sostenere una battaglia che non è solo di “Report” e che chiaramente prescinde sia dal giudizio che si dà del programma, sia dalla puntata e dal servizio in questione: in gioco c'è la libertà di stampa e quindi anche la democrazia. 
 

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