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MediaTech
Twitter e Facebook, il 2021 è l’anno della crisi: sorridono Telegram e Signal

Mai nella storia mondiale si era verificata una simile concentrazione di potere nelle mani di pochissimi. Perché, a memoria d’uomo, non era mai successo che quasi metà della popolazione mondiale si riconoscesse sotto un’unica bandiera, un unico soggetto che di questi miliardi di persone sa tutto: indirizzi, amicizie, preferenze sessuali, gusti musicali, capacità di spesa.

E dunque Facebook e Twitter si sono trovati di fronte a un bivio e hanno preso la strada sbagliata. Come diceva Oscar Wilde, la via per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, ma i due social network non ne hanno fatta una giusta. E ora pagano lo scotto, con un travaso di utenti verso altre app come Telegram e Signal che garantiscono più privacy e sono meno esposti del punto di vista mediatico.

Che cosa ha provocato la rottura? Tre temi fondamentali, tre passaggi che sono stati presi sotto gamba da quei giovani imprenditori, un po’ nerd un po’ alieni, che dalla Baia di San Francisco, tra cibo organico venduto a carissimo prezzo e appartamenti a costi folli, hanno deciso di cambiare per sempre le nostre vite. Ma ora il mondo chiede loro il conto, salatissimo.

Dunque i fatti: sui social network, e in particolare su Twitter e Facebook, per anni sono circolati video, post, immagini, commenti, link a notizie false. Non c’è vergogna nel dire che anche la stampa ha avuto un ruolo fondamentale, fungendo da cassa di risonanza a certe informazioni che arrivavano rapide in redazione e che non venivano neanche verificate.

Notizie false, bufale, fake news: comunque le si chiami, le varie teorie complottiste che hanno portato in alcuni casi al rischio di sovvertimento dell’ordine costituito hanno trovato il loro ventre molle nei social network.

Il tutto a causa di quel sistema di “bolle” per cui chi la pensa in un certo modo e scrive o condivide un certo tipo di post vedrà soprattutto notizie e aggiornamenti provenienti da utenti con preferenze simili. Un meccanismo che si autoalimenta: posto una storia falsa, la ritrovo tra altri miei contatti, mi convinco che sia vera, in un meccanismo a valanga che è stato alla base di teorie strampalate come la recente Qanon o il ruolo di Soros e Bill Gates nel propagare il Covid-19.

Problema strettamente connesso a quello delle bolle è che non si vede fuori dalla propria zona di contenimento. Così si spiegano le cantonate prese dai vari analisti politici nelle elezioni Usa o durante quelle italiane a partire dal 2013, quando sembrava che il centro-sinistra avrebbe vinto a mani basse e si ritrovò sostanzialmente in pareggio con un Berlusconi che era riemerso dalle sue ceneri e che aveva condotto una campagna capillare fuori dai “salotti buoni” frequentati dagli opinionisti.

Quando tutti si sono accorti che la situazione era sfuggita di mano e che le piattaforme social non servivano più solo per ritrovare i compagni di classe delle elementari o per dire la propria sul tema del giorno, era troppo tardi e i buoi erano belle che scappati e già finiti al macello.

Perché si è scoperto che la forza di una fake news era superiore a quella di una notizia vera o di una smentita di almeno 4 o 5 volte. Era come fermare una valanga con la paletta da spiaggia. A quel punto, l’unica idea che è stata partorita nella Silicon Valley è stata quella di mettere degli avvertimenti: “attenzione che questa notizia potrebbe essere fasulla”. Creando ancora più confusione e facendo alzare ulteriormente la temperatura. Quando poi Facebook ha iniziato a chiudere le pagine, si è capito che la situazione era degenerata.

E non perché non sia giusto limitare il diritto di parola a chi soffia sul fuoco del razzismo o dello squadrismo, a chi insiste per la violenza o chi sostiene – scientemente – il falso. Ma perché nessuno ha mai chiesto conto ai social network, Facebook in testa, del ruolo predominante all’interno della società.

Ogni volta che si è parlato di web tax c’è stata una levata di scudi. Ogni volta che qualcuno ha provato a chiedere di mettere un freno alla diffusione delle informazioni si è ottenuto soltanto un brontolio sommesso di chi diceva che si volevano limitare le libertà individuali.

E invece le cose vanno dette tutte: Facebook o Twitter o Google stessi non sono piattaforme, ma editori, che diffondono contenuti potendo contare sul loro ruolo di Over The Top, cioè coloro che drenano l’80% delle risorse pubblicitarie provenienti dalla rete e che di conseguenza hanno un peso enorme nella selezione delle informazioni. Perché nessuno ha mai chiesto conto di questi problemi ai social?

I giornali sono iscritti al tribunale, i giornalisti pagano per far parte di un ordine professionale, quello che viene scritto è suscettibile di querela e la diffamazione ha come aggravante il “mezzo stampa”. Invece, nessuno si è mosso.

Che Donald Trump rappresentasse un problema, con i suoi toni fuori dall’ordinario, con le sue idee volutamente false per stuzzicare la pancia più reazionaria (e per certi versi retrograda) del Paese è un dato di fatto. Ma lo è altrettanto che oltre 70 milioni di americani hanno scelto The Donald proprio perché ha dato loro voce dopo che l’amministrazione Obama era stata molto più incline a parlare alle elite, a chi vive nel New England o in California.

Invece si è permesso a Trump di scrivere per anni qualsiasi sciocchezza possibile. E si è deciso di censurarlo solo quando ormai era caduto, inerme e inoffensivo. Lì Zuckerberg e Twitter hanno tirato fuori i muscoli. Bella forza, il nemico era ormai definitivamente sconfitto proprio da quei disordini che aveva indirettamente causato spandendo benzina dai social network.

Una scelta, tra l’altro, che non è piaciuta ad Angela Merkel – per esempio – che non può certo essere annoverata tra gli ultras del presidente americano uscente. La cancelliera, infatti, ha rimarcato come sia gravissimo che una società privata decida di togliere la parola a un leader democraticamente eletto. Un concetto rimarcato con ancora maggiore fermezza dal commissario europeo Thierry Breton, che ha scritto su Le Figaro che «il fatto che un Ceo possa staccare la spina dell'altoparlante del presidente degli Stati Uniti senza alcun controllo e bilanciamento è sconcertante. Non è solo una conferma del potere di queste piattaforme, ma mostra anche profonde debolezze nel modo in cui la nostra società è organizzata nello spazio digitale».

L’errore esiziale di Facebook e Twitter è proprio quello di aver avviato una censura retroattiva durissima, che ha colpito anche Libero in Italia. È sempre un brutto momento quando come unico strumento di contraddittorio si ha il black out. Perché un quotidiano come quello diretto da Feltri e Senaldi è stato spesse volte sopra le righe, ma non ha trovato alcun tipo di sanzione vera da parte degli organismi preposti, cioè l’Ordine e, in ultima istanza, i tribunali. Se Facebook e Twitter si sostituiscono perfino alle istituzioni, allora viviamo un momento molto buio.

Infine, proprio nei giorni della buriana, Zuckerberg ha pensato bene di lanciare una nuova release di WhatsApp in cui si chiede di accettare (pena l’esclusione del servizio da febbraio) di poter accedere ai dati detenuti su Facebook. E il cerchio si chiude: l’app di messaggistica, che viene sempre più spesso usata per lavoro, ha accesso a informazioni importanti come i nostri interessi e la nostra capacità di spesa.

La privacy è un lontano ricordo, ma soprattutto si va verso la creazione di un ecosistema chiuso in cui transita tutta la nostra vita, dalle foto dei bambini ai sistemi di pagamento. Sì, perché l’ultima frontiera di Facebook è proprio quella di fare concorrenza a Google e Apple, forte di informazioni preziose, sul terreno dei pagamenti, che sono il nuovo Eldorado. E può farlo perché ha oltre 3,5 miliardi di iscritti, più di due miliardi di utenti attivi solo sul social network.

Instagram, che fa sempre parte della “famiglia”, ha un altro miliardo di iscritti e non tutti sono parte di Facebook, perché i più giovani, per esempio, non sempre sono attratti dal social di Menlo Park. WhatsApp, infine, ha 1,6 miliardi di utenti attivi e durante il giorno scambia 65 miliardi di messaggi. Un mondo sotterraneo e vastissimo, con regole sue (alcune bizzarre) che si muove al di sopra delle norme dei Paesi sovrani. Pericolosissimo.

In tutto ciò, la gente ha deciso di mollare Facebook e Twitter per dirigersi verso altre piattaforme come Signal (la più sicura) e Telegram, che nell’arco di 72 ore ha incrementato il proprio bacino d’utenza di 25 milioni di iscritti arrivando a 500 milioni di utenti attivi. Le azioni di Facebook hanno perso oltre il 7% del loro valore dai disordini di Capitol Hill nonostante il post di Zuckerberg che annunciava la sospensione dell’account di Trump. Anzi, proprio a causa di quella decisione.

Twitter ha lasciato sul campo oltre il 10% della sua capitalizzazione. Anche perché, a fare le anime candide, si rischia grosso: l’uccellino di Dorsey, infatti, ha oltre 330 milioni di utenti iscritti, ma, secondo le stime, meno della metà  attivi: gli altri sono “silenti”. Spesso, poi, sono perfino bot.

Dunque, di fronte a dati così poco rassicuranti anche in termini di trasparenza (a quando una pulizia degli account fake dei troll?) sarebbe opportuno che tutti facessero un passo indietro. Perché anche (e soprattutto) a San Francisco, la mano di bianco sta iniziando a mostrare le crepe. E sotto si annida sempre più muffa.

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