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Politica
Arcuri dai banchi a rotelle al caos vaccini: 11 mesi da plenipotenziario Covid

Covid, via Arcuri: il nuovo Commissario straordinario è Figliuolo

“Io non faccio troppe cose, ne faccio solo una”. Sottinteso: combatto la pandemia. In questa frase, pronunciata solo pochi giorni fa, c’è tutto Domenico Arcuri. Classe 1963, calabrese di Melito di Porto Salvo, l’ormai ex commissario straordinario all’emergenza Covid in questi mesi in effetti ha fatto di tutto, dalle mascherine all'app Immuni, dai banchi a rotelle all’approvvigionamento di siringhe, fino alla sfida più impegnativa, che si è rivelata forse una montagna troppo ripida anche per lui: il più grande piano vaccinale nella storia italiana.

Ma sempre sotto le righe, senza eccessivi presenzialismi, senza profili social, nemmeno un tweet per replicare alle tante critiche, alle polemiche, alle accuse mediatiche e, ultimamente, anche quelle giudiziarie. Ultimo Gattopardo di un'antica tradizione di boiardi di Stato, cresciuto da giovanissimo alla scuola dell’Iri, voluto, si disse, personalmente da Romano Prodi, Arcuri diventa manager ultraricercato negli anni ’90: telecomunicazioni, informatica, radiotelevisione, consulenze.

Nel 2004 è amministratore delegato di Deloitte Consulting e nel 2007 arriva all’apice con la nomina a Ceo di Invitalia, l’Agenzia nazionale per lo Sviluppo, di proprietà del ministero dell'Economia, che, come recita il sito, "dà impulso alla crescita economica del Paese, è impegnata nel rilancio delle aree di crisi, opera soprattutto nel Mezzogiorno e finanzia i progetti grandi e piccoli, rivolgendosi agli imprenditori con concreti piani di sviluppo, nei settori innovativi e ad alto valore aggiunto".

Negli anni Arcuri si ritaglia un ruolo di primissimo piano, anche se pochi italiani lo conoscono: crisi aziendali, startup innovative, bonifiche, reindustrializzazione, questione meridionale (che lui chiama “questione nazionale”). Da Bagnoli a Termini Imerese, fino alla colossale questione Ilva, seguita anche da commissario Covid. Arcuri c’è sempre, accanto ai presidenti del Consiglio che si sono succeduti negli anni, un po’ eminenza grigia un po’ spin doctor, fiero dello sguardo obliquo con cui comunica i suoi traguardi e risponde alle polemiche, una studiata postura da mandarino che lo ha reso impermeabile agli stravolgimenti politici: il numero uno di Invitalia è rimasto in carica con il secondo governo Prodi, il quarto governo Berlusconi, e poi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, i due governi Conte, e anche con il governo Draghi, finora.    

Ma è lo scorso marzo, mentre l’Italia vive il dramma della prima ondata, il lockdown totale, i camion militari carichi di bare, che Arcuri da 'grand commis' noto solo nei palazzi che contano diventa davvero un personaggio pubblico. Il premier Conte lo nomina commissario straordinario all’Emergenza Covid, si dovrà dedicare alle “misure occorrenti per il contenimento e il contrasto dell’emergenza epidemiologica”.

Erano i giorni in cui al governo serviva appunto una figura terza, commissariale, a cui garantire piena libertà d’azione: «Tutti gli atti sono sottratti al controllo della Corte dei Conti – recita il decreto di nomina - fatti salvi gli obblighi di rendicontazione".    

Un ruolo che in principio sembrava destinato al capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, il quale però finirà suo malgrado per essere associato solo alle lugubri letture quotidiane di bollettini sempre più drammatici. Da quel momento, per 11 mesi, in Italia l’emergenza Covid ha solo un nome e cognome: Domenico Arcuri. Sulle sue spalle ricadono le emergenze improrogabili, prima fra tutte la scarsità di dispositivi di protezione. Arcuri apre mille canali, decine di commesse, sblocca partite alla dogana, semplifica (secondo i critici deregolamenta) i criteri di validazione, e finalmente le mascherine chirurgiche, e poi quelle Ffp2, arrivano, con tanto di braccio di ferro con i farmacisti.    

La mascherina al prezzo politico di 50 centesimi è il primo traguardo che Arcuri può vantare. Ma la struttura commissariale si occupa di tutto: l’acquisto di respiratori polmonari, il monitoraggio dei posti letto, i milioni di tamponi (e i relativi reagenti) messi a disposizione delle Regioni. Indifferente alle critiche, imprudentemente il commissario sottolinea in estate i successi del “modello Italia”, forte di un calo dei contagi che purtroppo, si scoprirà presto, è solo temporaneo. Sono i mesi dell'app ‘Immuni’, presentata in pompa magna e poi naufragata per i pochi download. Ma anche dei celebri banchi monoposto, con o senza rotelle, che la struttura commissariale acquista in quantità per essere però recapitati, nella maggioranza dei casi, quando le scuole sono state già richiuse dal vento della seconda ondata autunnale. 

Infine, la sfida più grande, quella che probabilmente gli costa il posto: il piano vaccini. Forte di oltre 200 milioni di dosi prelazionate, Arcuri promette l’immunità di gregge per l’estate, punta sulle ‘Primule’, che sono un logo (disegnato da Stefano Boeri), ma anche (almeno nelle intenzioni) le strutture da installare in ogni città per facilitare le vaccinazioni. Le dosi arrivano, però, a singhiozzo, le Regioni si muovono in ordine sparso, le Primule rimangono sulla carta (bocciate implicitamente anche da Draghi nel suo discorso programmatico) e la campagna non decolla.    

Non aiuta nemmeno l’inchiesta nel frattempo aperta sulle mascherine, che vede il commissario promotore di maxi-commesse con la Cina passate per mani probabilmente non limpidissime. Troppe questioni aperte, senza contare che Arcuri rimane ad di Invitalia, e continua a seguire tra le altre la crisi dell’Ilva.    

Che in Italia qualsiasi emergenza la gestisca Arcuri, mi sembra esagerato”, ha scandito Renzi pochi giorni fa. Più tranchant, al solito, Salvini, che lo ha definito “un incapace in ritardo su tutto”. Ora la rivoluzione di Draghi, che in tre giorni ha sostituito Borrelli con il rientrante Curcio e oggi Arcuri (da settimane in auto-sommersione, pochissime dichiarazioni e conferenze stampa del giovedì annullate) con il generale Figliuolo, uno che negli anni d’oro di Invitalia era in Kosovo. L’obiettivo è uno: vaccinare in fretta, più italiani possibile, per battere sul tempo un virus ben lungi dal mollare la presa. 

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