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Giustizia, Draghi “alieno” intoccabile: Thatcher lady di ferro. Lui di titanio
Mario Draghi 
Lapresse

Innanzi tutto bisogna dire che la legge Bonafede che ha abolito la prescrizione è un obbrobrio. Soltanto persone affette da grave insensibilità giuridica possono averla concepita ed approvata. Con essa si è dimenticato che la legge penale è – originariamente – l’usurpazione dello Stato del diritto alla vendetta del privato. E quando parlo di usurpazione non intendo criticare la legge penale, intendo che mentre la vendetta è un diritto naturale, la delega allo Stato di raddrizzare i torti è il portato della civiltà. Soprattutto in considerazione di un doppio difetto della vendetta: chi può esercitarla spesso esagera nella misura, e chi non può esercitarla rimane deluso nel suo desiderio di giustizia. Avocando a sé la punizione dei torti, lo Stato vuole porsi come elemento di giustizia per tutti e di moderazione.

Ma proprio questo scopo fondamentale è frustrato dallo Stato stesso se viene meno al dovere di assicurare la ragionevole durata dei processi (Art.111 Cost.). Infatti un processo che dura decenni punisce troppo l’innocente, anche se infine lo assolve, e lascia troppo a lungo impunito l’imputato, se colpevole. Insomma sbaglia sia nei confronti del colpevole sia nei confronti dell’innocente. Sbaglia anche nei confronti della vittima o del danneggiato del reato, perché in tutto quel tempo essi non possono far valere la loro pretesa di risarcimento.

Chi ha abolito la prescrizione è come se affermasse che l’amministrazione della giustizia non è – come in uno Stato di diritto – una sostituzione della giustizia pubblica alla giustizia privata, ma un dovere morale, esercitato in nome del Dio dello statalismo. Per questo volendo che il diritto dello Stato di punire non incontri ostacoli, nemmeno quello dell’innocenza dell’accusato, nemmeno quello delle sofferenze e delle spese inflitte ai singoli, non si accetta nessuna guarentigia in favore del cittadino. Si tratta di una mentalità rousseauiana, giacobina, totalitaria, che una persona dabbene dovrebbe rigettare con sdegno.

Hegel ha osato dire che lo Stato è la suprema realtà etica, un liberale dice invece che lo Stato è una triste necessità, da accettare per evitare mali maggiori; ma senza deificare la “volontà generale”, a scapito dell’individuo.

È vero, la maggior parte dei cittadini passa l’intera vita senza essere mai accusato di un reato. È vero, non tutti gli accusati sono poi condannati. E tuttavia nessuno deve credere che gli accusati e i condannati siano cittadini speciali, domani potreste esserlo voi, domani potrei esserlo io, mio padre, mio figlio, una persona a me cara. L’intera comunità non deve considerare lo Stato come un drago con la bava alla bocca, che colpisce a caso in una società corrotta. Deve considerare come un’intollerabile sconfitta la persecuzione del cittadino che poi risulta innocente, per non parlare della sua condanna.

Ora a tutto questo si vuol mettere rimedio con la riforma Cartabia e l’intento non può che essere applaudito. Ma questo non ci deve far chiudere gli occhi sui difetti di una riforma timida, un po’ ipocrita e che, dopo tutto, costituisce uno scaricabarile.

Cominciamo col dire che, invece di abolire la riforma Bonafede, sbagliata e basta, si è voluto tenere conto della sensibilità grillina, introducendo l’improcedibilità al posto della prescrizione. So che giuridicamente si tratta di istituti diversi, ma in concreto se non è zuppa è pan bagnato. E sarebbe bello chiamare le cose col loro nome. Lo spazzino fa un nobile lavoro, se tiene la città pulita, e spazzare non è vergognoso. Lo fanno, lodevolmente, tutte le madri di famiglia. E allora perché chiamare lo spazzino operatore ecologico? O gli togliete la scopa (ma come pulirà?) o lo chiamate spazzino, e lo rispettate.

In secondo luogo, due anni per l’appello e un anno per la Cassazione sono tempi troppo stretti, per l’andazzo italiano. Dunque bisognava modificare le strutture, forse il codice di procedura, aumentare gli stanziamenti e via dicendo. Diversamente è come se si dicesse agli autisti dei servizi pubblici: “Dovete aumentare le corse del 50%” , senza cambiare il numero degli autobus, i percorsi urbani, i turni di servizio.

In fondo - è vero - il governo non chiede la Luna. Ci sono distretti di Corte d’Appello in cui i tempi della “Cartabia” sono già rispettati. Ma appunto, che cosa fare per quelli in cui, fino ad ora, non sono mai stati rispettati? E non sono stati rispettati per infingardaggine, pigrizia, disorganizzazione degli operatori di giustizia, o per motivi obiettivi, che andrebbero rimossi prima di imporre l’impossibile?

Si direbbe che il governo Draghi abbia fatto un ragionamento salomonico, come quando quel famoso personaggio propose di tagliare il bambino in due, per darne una metà ad ognuna delle due donne che si proclamavano la madre. Così il governo avrebbe detto: “Se non giudicate a tutta velocità, sarà il caos, e la collettività vi accuserà senza pietà dello scandalo di migliaia di colpevoli impuniti. Dunque datevi una mossa, trovate il rimedio, o tanto peggio per voi”. Ma è sempre possibile, che lo trovino? E quando le difficoltà sono obiettive? Già i romani avvertivano che ad impossibilia nemo tenetur.

Chissà, forse Draghi ha proprio voluto creare l’emergenza. Ha ragionato da soldato di ventura più che da amministratore. Come dicesse: “Signori, per anni la collettività ha sofferto – e molto – dell’attuale amministrazione della giustizia. Senza nessuna sua colpa. È tempo che soffriate anche voi, e poco importa se avete delle colpe o no. Dovete collaborare alla riforma, questa e le seguenti, a passo di corsa. Non soltanto non dovrete mettervi di traverso ma dovrete pedalare con tutte le vostre forze. Prima avete esagerato in inerzia, ora per salvarvi dovete produrre uno sforzo eccezionale. Una cosa è certa, non soltanto questa riforma ce la chiede l’Europa per finanziare la nostra ripresa, ma essa è necessaria da troppo tempo. Troppo per accettare qualunque scusa. Perfino giustificata”.

Fino ad ora ho sempre creduto che Draghi non sarebbe riuscito a varare le riforme promesse. Anche perché non potevo prevedere, in Italia, il suo attuale comportamento. Ora, se lui continua così, il mio pessimismo comincerà a vacillare. E rimane da spiegare come mai il Presidente del Consiglio si dimostri così diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto.

Mario Draghi è un uomo che è arrivato ai più alti livelli, prima italiani e poi europei, non per vie traverse, ma per merito. Così da un lato ha imparato a non dire grazie a nessuno, dall’altro ha imparato a non temere nessuno. Poco fa l’ho paragonato a un soldato di ventura, in realtà avrei dovuto paragonarlo a un Capitano di Ventura. Uno che vive di forza propria. Che quella forza è disposto a metterla in campo per un committente (oggi la Nazione italiana) ma in nessun caso divenendo un dipendente o un servo di chicchessia. Draghi non vuole fare carriera in politica. Mentre gli altri hanno cominciato da assessore alla nettezza urbana di Poggibonsi, lui ha cominciato da Presidente del Consiglio. E non come Giuseppe Conte - perché bisognava comunque mettere qualcuno a quel posto - ma perché è stato pregato di accettare la carica personalmente da Sergio Mattarella, il Presidente della Repubblica Italiana. E fino al giorno prima la paura universale è stata che non accettasse. Talmente poco aveva bisogno di quel lustro.

E chi ha di fronte? Ha principalmente i parlamentari del Movimento Cinque Stelle, i rappresentanti del partito di maggioranza relativa. E mentre lui personalmente può lasciare il suo posto domani, senza il minimo rimpianto, perché ha un nome e un mestiere, quei parlamentari, se votano contro la riforma Cartabia e fanno cadere il governo, vanno a casa per sempre e le Camere le vedranno soltanto in albergo. Dunque loro, per povertà, sono obbligati a votare qualunque cosa Draghi proponga, mentre lui, per ricchezza, può anche rischiare l’osso del collo politico.

Sembra di sognare. Un uomo politico italiano che, invece di far pensare a un invertebrato, fa apparire dei moderati Bismarck e la Thatcher. Non un uomo di ferro, un uomo di titanio. Ma dove l’hanno fabbricato?

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