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Palazzi & potere
"In mano ai killer cellulari clonati": si riapre la strage di Capaci

La ricostruzione della strage di Capaci è al centro del libro “I diari di Falcone”, edito da Chiarelettere e in libreria dal 17 maggio. In particolar modo viene evidenziata un’anomalia clamorosa nella dinamica dell’agguato. Tutti i pentiti sostennero infatti di aver pedinato l’auto che andava a prendere il giudice a Palermo negli ultimi quindici giorni e di aver scoperto così che Falcone scendeva a Palermo di sabato. A smentirli tutti quanti sono tuttavia le agende elettroniche del giudice, che entrarono e uscirono rapidamente dai processi sulla strage senza che venissero svolti ulteriori accertamenti: in esse si evidenziava come negli ultimi due mesi Falcone non fosse mai sceso a Palermo di sabato. E che tutti i voli citati in aula riguardassero altre tappe. Come facevano allora i mafiosi a sapere dell’arrivo di Falcone in città? È quanto si chiede l’autore del volume, Edoardo Montolli, che nel 2009 pubblicò il libro “Il caso Genchi”, sulla vita professionale dell’allora vicequestore aggiunto Gioacchino Genchi. Da allora lo scrittore ha studiato le consulenze sulle due agende elettroniche di Falcone che proprio Genchi, insieme all’ingegnere Luciano Petrini (assassinato nel 1996, il colpevole non fu mai trovato) svolse e depositò a Caltanissetta nel 1992, tra mille ostacoli ed episodi misteriosi ripresi dal libro. Una di esse fu trovata cancellata dopo il sequestro e in modo non accidentale. Nel libro “I diari di Falcone” vengono ricostruiti fatti mai emersi sugli impegni del giudice e quanto gli accadde negli ultimi giorni di vita.Nel volume si parla anche di un documento dell’ambasciata americana, riportato in un vecchio libro, in cui si racconta come a fine maggio 1992 il ministero della giustizia inviò da Paolo Borsellino il magistrato Liliana Ferraro, vice di Falcone agli Affari Penali, per affidare al magistrato l’inchiesta su Capaci sulla quale, secondo tale documento, Borsellino già indagava. L’incontro è confermato dall’agenda grigia di Borsellino. Ma, come rammenta all’autore Fabio Repici, avvocato del fratello del magistrato, Salvatore Borsellino, non è mai emerso nei processi su via D’Amelio.Per otto anni Montolli ha studiato  le agende elettroniche del giudice, entrate e uscite dai processi sulla strage di Capaci, nonostante le richieste di approfondimento dei due consulenti che se ne occuparono, le cui consulenze furono depositate nel 1992. Dall’analisi emerge un particolare inquietante inerente il marzo del 1992, quando una “circolare dei prefetti” allertava su un piano di destabilizzazione volto a colpire l’Italia, con attentati (puntualmente avvenuti) tra marzo e luglio. La notizia era emersa il 18 marzo (dopo il delitto di Salvo Lima del 12 marzo) giorno in cui Falcone si trovava a Palermo con Paolo Borsellino e con il presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Ma, svela l’autore, stranamente entrambe le agende elettroniche del giudice, su cui era annotato ogni suo impegno (perfino successivi alla sua morte) solo nel mese di marzo 1992 risultano completamente vuote. Nell’intero mese di marzo, quello dell’allarme sulla destabilizzazione dell’Italia, Falcone non risulta aver annotato nulla (nemmeno l’impegno con Cossiga e Borsellino) in alcuna delle sue inseparabili agende. Perché? E cos’accadde?Poi c’è la famosa pista che porta agli Stati Uniti. Nel libro si ricorda come l’ipotesi che un ben preciso piano di destabilizzazione arrivasse dagli Stati Uniti con la strage di Capaci fosse stata avanzata dal primo gruppo d’indagine che se ne occupò. Anche se fu proprio l’Fbi ad essere chiamata come consulente sulla strage di Capaci e su quella successiva di via D’Amelio. Il volume racconta della curiosa frequentazione con gli uffici Nato di Elio Ciolini, il depistatore della strage di Bologna che fu tuttavia la fonte della «circolare dei prefetti».Vi è una terza “profezia” che “I diari di Falcone” analizza: si tratta delle dichiarazioni mai messe a verbale di Tommaso Buscetta, il quale, al magistrato Leonardo Guarnotta confidò che nel 1993 i Corleonesi avrebbero colpito il patrimonio artistico italiano. Solo che quando il pentito fece quelle confidenze, racconta Montolli, non solo Buscetta era negli Stati Uniti sotto protezione dell’Fbi da anni, ma neppure i Corleonesi avevano ancora deciso di attuare quelle stragi, stabilendo di colpire un obiettivo per tutto il resto del mondo inimmaginabile. Come faceva Buscetta a saperlo? È giallo anche su un impegno a Washington di Falcone, datato tra la fine di aprile e gli inizi di maggio 1992. L’episodio fu sempre seccamente smentito dal ministero della giustizia nonostante diversi testimoni italiani e americani ne avessero parlato ben prima che i consulenti recuperassero l’appunto. Dal confronto tra le agende elettroniche e le dichiarazioni in aula dei testimoni, l’autore ha scoperto tuttavia come nessuno sappia ancora dire dove si trovasse Falcone tra fine aprile 1992 e i primi giorni di maggio, quando i suoi cellulari non chiamarono né ricevettero telefonate. Un possibile testimone oculare si è rifiutato di parlare all’autore. L’ipotesi di un incontro con Buscetta risulta inquietante perché, tempo dopo, il pentito, dal suo rifugio negli Stati Uniti fu in grado di profetizzare le stragi del 1993 al patrimonio artistico italiano prima ancora che i Corleonesi decidessero di attuarlo. Cosa sapeva Buscetta? E perché lo sapeva? Era al corrente di un piano di destabilizzazione dell’Italia e ne aveva messo al corrente il giudice?

L’ipotesi più agghiacciante emersa nel libro “I diari di Falcone” è infatti che i telefonini dei mafiosi delle stragi di Capaci e via D’Amelio fossero clonati. Come se i corleonesi, per la strage di Capaci, fossero stati solo gli inconsapevoli strumenti di altre persone molto più preparate. C’è infatti una consulenza - mai entrata nei processi sulle stragi - inerente un cellulare clonato appartenuto ad un boss trapanese legato a Nino Gioé e Gioacchino La Barbera. Se tutti i pentiti hanno dichiarato che iniziarono ad usare i telefoni clonati dopo le stragi del 1992, quel cellulare risultava clonato fin dal 1991. Ma se così è, rammenta l’autore, quegli stessi telefonini potrebbero essere stati clonati da altri nei giorni delle stragi. In particolar modo Montolli fa riferimento ad uno 0337 in mano agli stragisti di Capaci, ufficialmente rubato e non più funzionante che tuttavia, poco prima che Falcone salisse sull’aereo che lo portava a Palermo il 23 maggio 1992, chiamò tre volte negli Stati Uniti, l’ultima per quasi nove minuti. Telefonate che tutti i pentiti hanno negato di aver fatto. Chi usò allora quel telefono? E come poteva funzionare se non si trattava di una clonazione?E il commando che prese parte alla strage? Era decisamente un commando che, per quanto sosteneva Falcone, appare decisamente anomalo: si trattava, a parte Brusca, per buona parte di mafiosi di secondo e terzo piano, alcuni dei quali nemmeno avevano mai visto Totò Riina. Eppure, secondo Falcone, ai grandi attentati avrebbero dovuto partecipare solo i boss più importanti. Perché alla strage più importante parteciparono invece persone di livello molto inferiore? L’autore, in proposito, intervista nel libro Salvatore Petronio, l’avvocato dell’attendente di Riina Salvatore Biondino. Biondino è stato considerato il trait d’union tra il commando e lo stesso Riina. Ma rivela il suo legale all’autore: «In un colloquio durante una pausa del primo processo di Caltanissetta, attraverso le sbarre, in uno sfogo mi disse: “Avvocato, ma è mai possibile che un attentato cosi importante lo abbiamo fatto noi, quattro sprovveduti?” In effetti...».

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