Il concetto di finanza nell'Islam - Affaritaliani.it

Finanza

Il concetto di finanza nell'Islam

I capitali appartenenti a istituzioni, banche o semplici privati che desiderano rispettare i precetti dell’Islam sono ormai giunti a un livello talmente elevato anche nei mercati finanziari dei Paesi non di tradizione mussulmana (siano essi occidentali, orientali o altro) che non è più possibile considerarli solo come un aspetto secondario dell’economia di ciascun singolo Paese.

Inoltre, proprio le istituzioni finanziarie (facciamo l’esempio delle banche italiane, tanto per restare a casa nostra) non si possono permettere di dimenticare le esigenze di un nutrito gruppo di potenziali clienti, che non solo risiedono stabilmente nel nostro Paese, ma che qui producono redditi sempre crescenti e desiderano dunque proteggere i loro risparmi, pur nel rispetto della Shari’a, ovvero la legge islamica derivata da tre fonti: il Corano, l’Hadith e la Sunnah.

Anche per la Consob, in linea generale, la finanza islamica non è incompatibile con la disciplina europea ed italiana dei mercati finanziari, soprattutto in considerazione del fatto che la stessa poggia su un insieme di regole di natura oggettiva che prescindono dalla connotazione etica o religiosa delle attività imprenditoriali e dal settore industriale in cui operano.

Vediamo allora i fondamenti della finanza islamica, che si basa su di un semplice concetto: è vietato riscuotere interessi sul denaro dato in prestito, né è possibile restituire una somma maggiore di quella ricevuta in prestito.

Il concetto di interesse è identico a quello di usura (riba), pertanto egualmente vietato. Questo è il primo pilastro concettuale della finanza islamica. Non è vietato invece produrre dei beni o praticare il commercio e trarne un giusto guadagno. Per questo motivo i contratti più semplici (e più diffusi fin dai secoli scorsi) detti mudarabah, prevedono sì che un’attività produttiva o commerciale possa essere finanziata da un terzo, ma ciò che egli si aspetta non è mai un interesse sul capitale coinvolto, ma una parte dei profitti realizzati dall’impresa.

Ciò è reso possibile dalla presenza del secondo pilastro concettuale: sia coloro che producono o commerciano, sia coloro che investono il capitale, condividono un rischio d’impresa allo stesso modo.
Non si tratta di un rischio imprevedibile: ad esempio, quantità e prezzo di un bene oggetto di trattativa devono essere valori certi e non aleatori, non soggetti a gharar, incertezza. Però il successo o l’insuccesso di un’impresa commerciale, così come un guadagno maggiore o minore, sono parte integrante del concetto di rischio lecito, perché prevedibile.

Qualcosa di simile avviene anche nei contratti del mondo agricolo (ad es. l’istituto del Bai Salam) con cui si pagano in anticipo i frutti di un raccolto.

Va quindi sottolineato che non è la ricchezza in sé ad essere condannata dalla religione islamica, né il fatto di averla prodotta con operazioni commerciali di successo, ma semmai il fatto di lasciarla inerte e non farla fruttare.

Parimenti non è lecito trarre un ingiusto utile, come l’usura, dal suo impiego: ciò che conta è la componente di rischio imprenditoriale che obbligatoriamente deve far parte dell’investimento: questa però non deve mai sfociare nell’azzardo, altrettanto vietato. Per questo motivo i conti correnti bancari non possono rilasciare alcun interesse o premio ai correntisti: sarebbero paragonati a una forma di usura.

Se però non si tratta di remunerazione del denaro, ma della suddivisione degli utili operativi della banca in cui il conto corrente è stato aperto, ciò è lecito. Questo è il modo di agire delle banche islamiche, in particolare nei confronti dei conti correnti di risparmio. Paradossalmente, le banche islamiche sono invece tenute a offrire prestiti a tasso zero a chi dimostra di averne veramente bisogno, così come prevede la norma religiosa.

In tali casi però normalmente le banche, almeno nei confronti delle aziende, cercano di trasformare l’operazione nell’offerta di acquisto da parte loro di quote societarie, onde mantenere il controllo del denaro.

Anche l’emissione di prestiti obbligazionari (sukuk) è lecita, nel rispetto dei principi della Shari’a. Cioè non si tratta mai di prestiti obbligazionari come li intendono i mercati tradizionali, poiché mai si parla di interesse, né di capitale maggiorato alla scadenza. Ma c’è una remunerazione del capitale investito, sempre sotto forma di partecipazione alle attività dell’emittente.

Su basi completamente diverse si pone l’istituto del takaful. Si tratta in sostanza di polizze assicurative in cui le eventuali perdite di determinate operazioni sono suddivise tra diversi contraenti che le rimborsano: in pratica è presente, come vuole la legge coranica, la componente di rischio imprenditoriale, ma all’atto pratico si genera una sorta di lecito interesse in formula inversa per chi percepisce le somme.

Le polizze assicurative tradizionali, invece, prevedono alee e tassi d’interesse predeterminati, e cozzano così con i principi accennati. E’ però lecito creare forme di assistenza o cooperazione per dividere i rischi fra più contraenti: nessuno trae reddito illecito dall’operazione, semplicemente si condividono vantaggi e svantaggi.

Approfondiremo in un prossimo articolo lo sviluppo della finanza islamica sui mercati mondiali negli ultimi decenni e le modalità con cui si manifesta.

Paolo Brambilla