Finanza
Le commissioni di collocamento
I due economisti Robert Shiller e George Akerlof sostengono che nell’economia basata sul profitto è in qualche modo “necessario” ingannare la gente. D’altra parte non stupisce che il loro libro si intitoli: “Ci prendono per fessi: L'economia della manipolazione e dell'inganno”.
In finanza esistono infiniti esempi di come gli intermediari finanziari approfittino delle loro maggiori conoscenze per confezionare prodotti che vengono accettati dai clienti solo perché non ne capiscono caratteristiche e reali implicazioni.
Un esempio abbastanza recente sono le commissioni di collocamento dei fondi comuni d’investimento, strumenti di per sé interessanti, ma … le commissioni di collocamento sono di fatto delle commissioni d’ingresso mascherate.
Fino a poco tempo fa con le commissioni d’ingresso l’investitore partiva già con una “perdita”. Per ovviare a questo problema sono nati i fondi “no load” detti anche con il “tunnel”, cioè fondi senza commissione d’ingresso, che hanno però costi di uscita decrescenti. In pratica le commissioni di gestione periodiche sono più alte.
Alessandro Pedone, dell’associazione ADUC, ha affrontato recentemente il tema e ha valutato che cosa comportano le commissioni di collocamento in questo quadro.
“Questo sistema ha un piccolo difetto per l’industria del risparmio gestito: le commissioni non si percepiscono subito. Le commissioni d’ingresso, contabilmente, forniscono un ricavo immediato. Ecco che si sono inventati le commissioni di collocamento.
Al momento, queste commissioni sono previste solo per i fondi a durata predefinita e che prevedono un periodo di sottoscrizione limitato (non superiore a 3 mesi). Questa è la ragione per la quale vanno tanto di moda da un po’ di tempo a questa parte i fondi a tempo.
In questi fondi, quando il cliente investe 100 euro nel fondo, gli arriva la sua bella lettera di conferma d’investimento con scritto che il valore delle sue quote rimane 100.
Quindi il cliente non percepisce (a meno che non sia una di quelle mosche bianche che si leggono i prospetti informativi) che ha pagato dei soldi”.
Ma se non compaiono questi costi, chi li paga allora?
“Il trucco è che i soldi, al collocatore, non li paga direttamente il cliente, ma li paga il fondo stesso” prosegue Alessandro Pedone. “Più precisamente: il cliente per il tramite del fondo. In questo modo, le banche che collocano i fondi d’investimento possono mettere in bilancio subito una bella fonte di ricavi”.
Ma c’è un problema… il valore delle quote e' pubblico e questi soldi che sono usciti, fin dal primo giorno di funzionamento, dovrebbero implicare una diminuzione pari al costo della commissione di collocamento del valore delle quote. E questo non va bene, perché il cliente potrebbe rendersi subito conto del “giochino” che consiste nel rinominare in modo diverso le tanto “odiate” commissioni d’ingresso. Ci vuole una furbata. Uno di quegli “inganni” di cui parla Shiller nel libro citato all’inizio. La furbata è questa: il fondo inserisce fra gli attivi un credito (più precisamente un risconto attivo) che verrà compensato con una riduzione giornaliera del valore della quota. Detto in modo molto più semplice: è un banalissimo trucco contabile per nascondere queste commissioni e diluirne l’effetto visivo durante tutta la durata del fondo.
Si noti bene che il fondo non investirà, ovviamente, tutto il capitale versato dall’investitore, ma solo una parte, ciò nonostante l’investitore avrà la sensazione (sbagliata!) che il valore del suo investimento sia rimasto intatto dopo la sottoscrizione.
Che cos’è questo se non un inganno?
Le autorità di controllo potranno dire che questo non è un inganno perché sta tutto chiaramente scritto nei prospetti informativi. E qui veniamo ad un tema caro per noi di Aduc, che abbiamo ripreso tante volte: pensare di tutelare gli investitori semplicemente informandoli è una mera chimera.