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Cronache
Coronavirus, dati personali, infortuni e... : tutti i rischi del lavoro agile

Le pubbliche amministrazioni non sono tutte uguali e l’impatto dell’emergenza determinata dal Coronavirus ha avuto, inevitabilmente, effetti diversi. Ci sono quelle che debbono assicurare i servizi indispensabili e di assistenza, quelle che debbo comunque garantire il presidio territoriale e quelle che svolgono una funzione di coordinamento o comunque prestano attività in condizioni di “non prossimità” rispetto agli scenari dove si manifestano le problematiche dell’emergenza.

E’ per questa ragione che ha destato scalpore il riconoscimento di una somma, ancorché simbolica (100 euro) per i dipendenti costretti a recarsi nelle sedi di lavoro, intesa come eccezione necessitata rispetto all’obbligo di avviare immediatamente il cosiddetto “lavoro agile”.

Si è trattato di una rivoluzione che possiamo definire “frettolosa”, non intesa come giudizio, ma per le ragioni che ne hanno determinato l’attuazione immediata, dopo anni di annunciata sperimentazione, mai seriamente avviata.

Per effetto del decreto legge 9/2020, della successiva circolare 1 del Ministro per la pubblica Amministrazione, del DPCM dell’11 marzo e del decreto legge 18, la cui conversione è prevista nei prossimi giorni, si è introdotto nelle pubbliche amministrazioni un regime di lavoro singolare, ancorché necessario. Si è passati, infatti, in pochi mesi, dal rigoroso accertamento della presenza in servizio, enfatizzata dall’annuncio della introduzione di sistemi di rilevazione biometrica (come le impronte digitali), alla imposizione del contrario, cioè dell’assenza dal luogo di lavoro, per ragioni di tutela della salute pubblica.

Ogni pubblica amministrazione, quindi, è stata costretta, in pochissime ore a valutare le proprie funzioni, evidenziando quelle indispensabili, individuando i dipendenti a cui assegnarle e conseguentemente a obbligare gli altri a prestazioni di “lavoro agile”, cioè, da casa propria.

E’ stata una misura necessaria ed eccezionale che ha fatto emergere, dobbiamo riconoscerlo, la diffusa disponibilità e capacità dei nostri “burocrati”, spesso vituperati, che in questa circostanza hanno dato prova di efficienza, pur in condizioni proibitive e sotto la ridda di provvedimenti frequenti e di non facile attuazione.

Si è riusciti a passare (riconosciamone il merito) in poche ore, dal modello di “lavoro in presenza” a quello del “lavoro agile”, ottenendo così una drastica riduzione della circolazione delle persone. Ma ciò si è realizzato con prescrizioni che, essendo limitate a quello scopo, non hanno preso in esame gli aspetti connessi alle modalità di prestazione di lavoro. Ciò vuol dire che, dispiace dirlo, quanto prima potrebbero emergere situazioni per le quali qualcuno potrebbe chiedere l’applicazione di sanzioni a carico di volenterosi funzionari, per non avere assicurato adempimenti e disposizioni, ancora vigenti.

Le prime disposizioni sul “telelavoro” (in origine si chiamava così), infatti risalgono alla legge 191/1998, nella quale, all’articolo 4, si prevede di “autorizzare i propri dipendenti ad effettuare, a parità di salario, la prestazione lavorativa in luogo diverso dalla sede di lavoro, previa determinazione delle modalità per la verifica dell'adempimento della prestazione lavorativa”.

E il successivo DPR 70/1999 che ne darà attuazione, prevede che ciò si realizzi nell’ambito di “progetti”, nei quali siano specificati “gli obiettivi, le attività interessate, le  tecnologie utilizzate ed  i sistemi di supporto, le modalità di effettuazione secondo principi di ergonomia cognitiva, le tipologie professionali ed il numero dei  dipendenti di cui si prevede il coinvolgimento, i tempi e le modalità di realizzazione, i criteri di verifica e di aggiornamento, le modificazioni organizzative ove necessarie, nonché i costi e i benefici, diretti e indiretti”.

Si prevede inoltre che “la postazione di telelavoro deve essere messa a disposizione, installata e collaudata a cura ed a spese dell'amministrazione interessata, sulla quale gravano altresì la manutenzione e la gestione di sistemi di supporto per il dipendente ed i relativi costi. I collegamenti telematici necessari per l'effettuazione della prestazione di telelavoro debbono essere attivati a cura ed a spese dell'amministrazione interessata, sulla quale gravano altresì tutte le spese di gestione e di manutenzione. Sulla base di una specifica analisi dei rischi, l'amministrazione garantisce adeguati livelli di sicurezza delle comunicazioni tra la postazione di telelavoro ed il proprio sistema informativo. La postazione di telelavoro può essere utilizzata esclusivamente per le attività inerenti al rapporto di lavoro”.

Si fa, inoltre, cenno alla necessità di adottare verifiche sulle prestazioni rese, come sarà richiamato nella successiva legge 124/2015. E non si trascura la necessita della tutela dei dati personali, a cui accederebbe il dipendente che opera al di fuori dell’ambiente di lavoro, questione evidenziata già nel CCNL del 2000.

Gli altri vincoli presenti nei provvedimenti riguardano gli obblighi di informazione delle organizzazioni sindacali che, in questo periodo, rimangono espressamente sospesi.

Dal quadro di insieme si evidenzia che a fronte di una straordinaria capacità di dare attuazione alle disposizioni normative, non si è ancora emersa la preoccupazione di tutelare lavoratori e datori di lavoro. Infatti di ciò non vi è traccia nemmeno nella prima versione della legge di conversione del decreto, già approvata, con il voto di fiducia, al Senato.

Le questioni da esaminare, forse oggi non appaiono di particolare emergenza, ma se non saranno affrontate nell’immediato, inevitabilmente potranno causare gravi ripercussioni che, come si è detto, potrebbero vedere alcune istituzioni pubbliche, a cui viene demandata la funzione di controllo, accanirsi nei confronti di funzionari ai quali, in tempi di emergenza, è stato richiesto di agire senza badare a vincoli normativi.

La prima delle questioni riguarda la capacità di attribuire a ciascun dipendente dei compiti specifici da realizzare “a casa propria”, avendo l’onere di dimostrare, sia di averli assegnati, sia di averne verificata l’attuazione. E’ evidente che non si tratta di una questione di poco conto. Ma altrettanto evidente che non è lecito pretendere che, da subito, per ogni addetto sia stato individuato il compito da realizzare nelle sei ore lavorative. In questo stesso ambito si scontreranno sia la buona fede del funzionario che ha giustamente imposto il “lavoro agile”, pur in assenza di compiti, sia l’eventuale mala fede di chi, in quelle ore ha pensato di fare altro, magari in giro per la città, confidando nella piena copertura retributiva, alimentando, quindi propositi di denunce da parte di cittadini. Viene da porsi una domanda: come si comporterebbe un magistrato contabile laddove, in casi come questo, venga sollevato il danno erariale?

Un’altra questione riguarda la cosiddetta “postazione di lavoro”. Nelle norme che abbiamo visto si richiede che sia allestita a spese dell’amministrazione e che questa risponda di ogni eventuale conseguenza che possa derivare per l’incolumità del dipendente. Ma l’emergenza, giustamente, ha suggerito l’emanazione di disposizioni che, allo scopo di accelerare il ricorso al “lavoro agile” consentissero ai dipendenti l’utilizzo delle proprie apparecchiature e delle postazioni individuate presse le loro abitazioni. Viene però da chiedersi: nel caso in cui il dipendente individui una postazione scomoda (magari perché non dispone di spazi) e poco pratica e per questa ragione si procuri dei danni (p. es: locale poco illuminato o esposto al sole; luogo angusto e scomodo; ambiente insalubre o magari disseminato di ostacoli “familiari”, come giocattoli, mobili, pavimento scivoloso dopo avere passato la cera, ecc.) chi risponde di questi? E’ evidente che nel silenzio del legislatore dei nostri giorni, laddove qualcuno incorra in un incidente “domestico” durante le ore di lavoro, certamente si porrà la questione e viene da chiedersi quali posizioni prenderà il magistrato al riguardo. Certamente la soluzione da adottare, immediatamente, è quella di individuare precise prescrizioni nella individuazione della postazione di lavoro e richiedere al dipendente un onere di “diligenza” nell’individuazione, liberando l’amministrazione e il datore di lavoro da eventuali rischi.

Ma sarà da affrontare anche un’altra questione, di particolare rilevanza: la tutela dei dati personali. Avere consentito che ogni lavoratore potesse prestare la propria opera mediante i propri mezzi informatici, sicuramente ha accelerato l’attivazione del lavoro a distanza, ma questa condizione espone i dati dell’ente a rischi oggettivi. E’ evidente che il computer utilizzato da ogni dipendente può essere lo stesso che ospiti i video games del figlio o altre applicazioni di svago. Ed è possibile che, laddove non sia dotato di protezioni, si annidino dei virus o altri sistemi in grado di catturare le informazioni che vengono processate. Inoltre è possibile che, per ragioni di praticità, il dipendente ritenga di attrezzare un proprio archivio, informatico o cartaceo, con i documenti a cui accede frequentemente, magari, tramite le applicazioni messe a disposizione dall’ente. Viene quindi da chiedersi: chi risponde in caso di diffusione indebita di dati personali e come si fa a risalire al responsabile dalla violazione?

Sono soltanto tre aspetti critici, ma non gli unici, (basti pensare al tema del buono pasto per i dipendenti che lavorano da casa) che richiedono un intervento urgente del legislatore, sia per definire in modo certo ogni questione, in ordine alle responsabilità e alle modalità di attuazione, sia per proporre una sorta di “moratoria” che liberi i funzionari dalle responsabilità per le decisioni adottate in tempi di emergenza.

 

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