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Cronache
Iran patria mondiale della pena di morte.Il caso dello scienziato-spia Djalili

La pena di morte è una realtà con la quale nel XXI secolo ci si deve ancora inevitabilmente confrontare. Questo nonostante il diritto internazionale (nella carta del 10 dicembre 1948) sancisca che è proprio di ogni individuo il diritto “alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”.

Questa garanzia per la tutela dell’esistenza umana continua a non essere rispettata in diversi paesi del mondo, come l’Iran. Esemplare è il caso del ricercatore specializzato in medicina dei disastri e assistenza umanitaria Ahmadreza Djalili, che è stato condannato alla pena capitale.

Amnesty International, organizzazione che fin dalla sua nascita si occupa della difesa dei diritti umani, nel suo abituale report sulla pena di morte evidenzia che nel 2019 sono stata messe a morte 657 persone in 20 Paesi  e la maggioranza delle sentenze è avvenuta in Cina, Egitto, Iran, Arabia Saudita, Iraq. Gli ultimi tre restano i principali paesi esecutori rappresentando il 92% del totale delle pene capitali in Medio Oriente. La decisione ai danni del docente e ricercatore con doppia nazionalità, iraniana e svedese, è compresa in un lungo elenco che comprende 251 condanne emesse dal tribunale iraniano nel 2019.

Nonostante il 2 dicembre sia giunta la notizia che l’esecuzione dello scienziato è stata rinviata, il pericolo è dietro l’angolo. Il docente, che ha lavorato in giro per diversi Paesi Europei come  Svezia, Belgio e Italia, e in particolar modo al CRIMEDIM-Research Center in Emergency and Disaster Medicin dell’Università del Piemonte Orientale, da quasi cinque anni  vive una difficile condizione fisica e psicologica.

La sua disavventura è iniziata il 24 aprile 2016 quando, dopo aver lasciato l’Iran nel 1999, vi ha fatto ritorno per seguire alcuni seminari presso le università di Teheran e Shiraz. Proprio nella capitale del Paese è stato arrestato dai funzionari del Ministero dell’Intelligence e accusato sin da subito di aver collaborato “con i governi nemici” e in particolare con Israele nel 2000. Questo tipo di incriminazione è punita in Iran con l’impiccagione. E’ nell’ottobre 2017 che arriva questa condanna anche per Ahmadreza Djalili.

Il ricercatore subito dopo l’arresto è stato detenuto per 10 giorni in una località sconosciuta: la famiglia in tutto quel periodo è stata all’ oscuro di dove fosse, senza riceverne notizie. Spostato poi nella sezione 109 della prigione di Evin a Teheran ha visto negarsi per due volte la possibilità di scegliere un avvocato e dei sette mesi passati lì, tre sono stati in isolamento. E’ proprio durante l’isolamento che, secondo una testimonianza diretta di Djalili, è stato costretto a confessare, dopo aver subito maltrattamenti e torture, di aver incontrato almeno 50 volte membri dell’intelligence stranieri e di essere stato pagato 2.000 euro a incontro.

La vicenda, seguita sin dal suo inizio da Amnesty International che ha chiesto più volte la scarcerazione immediata dello studioso, appare ancora più buia se si pensa che la difesa parla di “assenza di prove” da parte del Tribunale di Teheran e che l’imputato sostiene fermamente la sua innocenza affermando : “Io sono uno scienziato, non una spia”.

Anzi è proprio nella dichiarazione di Ahmadreza Djalili in un documento inviato dal carcere che potrebbe essere rintracciata la causa del suo arresto: ”Durante un viaggio in Iran nel 2014 – ha scritto– due persone dell’esercito e dei servizi segreti mi chiesero di identificare e raccogliere dati e informazioni, di fare spionaggio nei paesi europei riguardo alle loro infrastrutture critiche, capacità anti-terroristiche, piani operativi sensibili. La mia risposta fu no”. Probabilmente è stata la risposta negativa che ha destato sospetti e scatenato la formulazione della condanna definitiva al carcere nel dicembre del 2017.

45 sono gli anni del ricercatore e 24 sono i kili persi dal momento dell’arresto ad oggi. Le sue condizioni di salute sono molto precarie e non tenute conto dalle autorità iraniane.

Nel marzo del 2020, a causa della pandemia, in Iran sono stati rilasciati 85.000 prigionieri, anche politici, ma non Ahmadreza Djalili che è rimasto in cella. E’ da lì che ha chiesto al governo svedese di intervenire per aiutarlo.

Il 10 ottobre, nella Giornata mondiale contro la pena di morte, molte campagne di solidarietà sono state organizzate per chiedere l’immediata scarcerazione, la caduta di tutte le accuse e il ritiro della condanna alla pena capitale per il professore.

Ad oggi 104 Paesi hanno abolito la pena di morte per tutti i reati, 7 l’hanno abolita salvo per reati eccezionali (come quelli avvenuti in guerra), 30 Paesi sono abolizionisti de facto ( non sono registrate esecuzioni da almeno da 10 anni)  mentre 57  mantengono in vigore la pena capitale. Tra questi nel Medio Oriente l’Iran detiene il triste record di morti per decisione della legge ma anche democrazie occidentali adottano questa soluzione definitiva ai danni dei detenuti, come l’America.

Attendendo nuove decisioni da parte del Tribunale di Teheran, non resta altro che prendere atto della detenzione di un altro accademico, sottratto alla comunità scientifica e che con molta probabilità lo sarà per sempre.

 



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