Cronache
Una mattinata in tempo di Coronavirus nel più grande ospedale di Nizza

Reportage senza commenti. Stamane alle 8,30 sotto una pioggia torrenziale salgo al Pasteur, padiglione I, Cardiologia, per la visita di controllo prevista dalla cardiologa nizzarda che un mese fa mi infilò d’urgenza, alle 2,05 di notte, uno stent in una coronaria occlusa all’89%. C’è il solito traffico ingorgato per la riapertura di uffici e negozi del lunedì mattina, aggravato dalla impossibilità di usare gli scooter, causa maltempo. In ascensore trovo una ragazza, immagino del personale ospedaliero, frettolosa perché deve prendere servizio, ma educata: mi aspetta tenendo aperta la portiera con una mano. Non si allontana. E non ha mascherina.
Le due sole mascherine viste in circa tre ore di permanenza nel padiglione Cardiologia del Pasteur sono quelle di un uomo e una donna in camice asettico da sala operatoria: uscivano forse da un intervento. Poi, nessun altro – pazienti, infermieri, medici - aveva mascherine. Nessuno si allontanava per distanziarsi. L’avrei fatto volentieri io quando, seduto sotto un cartello di consigli dietetici, è venuta una donnona ad alitarmi addosso per leggerselo dalla prima all’ultima riga. O forse, visto il tempo che ha messo, per impararlo a memoria.
Prima tappa all’ufficio accettazione. Una stanzetta in fondo al corridoio del terzo piano, divisa diagonalmente a metà da una paratia a due sportelli, dietro i quali siedono due impiegate. Davanti a loro due pazienti che stanno finendo le pratiche e una in piedi che aspetta. Con me, siamo in sei in pochissimi metri quadrati. Quando viene il mio turno, la signora dell’accettazione legge il dossier, lo confronta con quello che vede sul monitor, mi chiede il documento di identità.
Leggendo l’indirizzo, non resiste alla tentazione di chiedermi della epidemia nella mia città. Le rispondo che da Nizza non posso sapere nulla più di quanto legga sui giornali italiani e veda nei programmi televisivi italiani. Non fa commenti. E mi congeda come accettato. Passo allo sportello della segreteria del reparto, dove in un nanosecondo una ragazza mi mette in mano una cartella rosa col numero di consultazione.
La cardiologa è brava e bella ma, nonostante il cognome vagamente svizzero o tedesco, non mi sembra una campionessa di puntualità: arrivo sul lettino ella visita esattamente un’ora dopo l’orario previsto. Però, visto il tempo che mi dedica e l’approfondimento delle variazioni terapeutiche che prescrive, capisco che sacrifica la puntualità alla pignoleria cardiologica: scelta che mi sembra una virtù. Solo dopo l’auscultazione stetoscopica, la decisione di dimezzare un farmaco e l’annotazione della sua e-mail professionale in caso di necessità, si arriva a parlare di quella che in Italia è diventata l’ossessione del giorno: l’epidemia. Chiamata sempre così: per i francesi il nome coronavirus sembra indigesto.
Dico che mi sembra un’epidemia modesta, visto che l’anno scorso ne morirono molti di più per la semplice influenza e che tremila morti in tutto il mondo sono meno di quelli che ogni anno muoiono di incidenti d’auto nella sola Italia: 3.384 nel 2018. E lei osserva: modesta ma… “aussi tant de bruit”. Cioè: tanto rumore. Forse si riferisce alle cinque pagine dedicate ieri all’argomento dal quotidiano locale Nice Matin. O alla polemica tra il sindaco di Nizza, che ha tirato fuori la storia della ragazza di Cannes trovata positiva di ritorno dalla Settimana della Moda a Milano, e le autorità nazionali di Parigi, che volevano invece silenziarla.
Le reti televisive francesi dedicano al coronavirus un minutaggio congruo, ma non ossessivo. Se ne parla nei telegiornali e basta. Probabilmente è questa misura nel dosaggio di informazione a far sembrare meno angosciosa in Francia la vita di chi scappa dal martellamento quotidiano che televisioni e giornali infliggono agli italiani in Italia. Dove sembra che non ci sia altro da fare, ventiquattro ore su ventiquattro, che contare gli ammalati di coronavirus, difendersi dall’epidemia, contrarre l’epidemia e magari morirci.
Cui prodest questa insistenza che non salva l’Italia, ma la uccide?