Storie vere in libreria/ Così mi sono liberato dalla setta... - Affaritaliani.it

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Storie vere in libreria/ Così mi sono liberato dalla setta...

IgnazioTarantinoLonganesi

 

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«It’s the end of the world as we know it (and I feel fine)» cantavano i R.E.M. alla fine degli anni Ottanta e tutti gli adolescenti di quel periodo ricordano questa famosissima canzone. Tutti tranne Giuliano, per il quale la libertà di poterla cantare a squarciagola è stata una difficile conquista. Giuliano è l’ultimo nato di una numerosa famiglia meridionale. Sua madre, Assunta, è una donna mite e devota che ha annientato se stessa per occuparsi dei figli. Il padre è un depresso cronico, che sfoga in modo violento la sua frustrazione. Un giorno Assunta accoglie in casa due sconosciuti in abiti eleganti che, annunciandole l’imminente giudizio di Dio, le promettono la felicità e la salvezza eterna destinate agli «eletti». L’ingresso di Assunta in seno alla «Società» porterà a drastici cambiamenti nella sua vita e in quella dei suoi figli, costretti loro malgrado a condividerne la scelta. Soprattutto Giuliano, diviso tra il desiderio di assecondare le imposizioni e le manie religiose di una madre sempre più ossessionata dal peccato e il tormento che gli procura una vita di privazioni incomprensibili: l’isolamento a scuola, un amore soffocato e vissuto come colpa da nascondere, le sue giornate non più scandite da feste, partite di pallone o gite al mare ma dalle cupe assemblee nella «Sala del Regno» e dal servizio di testimonianza porta a porta. Con l’adolescenza, però, l’amore che lo lega alla madre entrerà naturalmente in conflitto con il suo bisogno di affermare la propria identità. E a quel punto sarà davvero la fine del mondo così come Giuliano l’ha conosciuto...

IgnazioTarantino

L'AUTORE - Ignazio Tarantino è nato a Monopoli e vive a Firenze, dove lavora nel campo dell’arte contemporanea. Questo il suo primo libro ed è stato scoperto attraverso il torneo lettario del gruppo GeMS "Io Scrittore".

 

LEGGI SU AFFARITALIANI.IT UN ESTRATTO
(per gentile concessione di Longanesi)

(...)

Babbo Natale non esisteva. Lorenzo era stato chiaro al riguardo e per chiudere la discussione mi aveva costretto a leggere direttamente la definizione sull’enciclopedia universale. La notizia mi turbò parecchio ma la cosa più incredibile era che a lasciare i regali sotto l’albero erano mamma e papà. Li compravano con i soldi. E io davvero faticavo a immaginare loro due soli nella notte, alla luce intermittente delle lampadine colorate, che sistemavano i pacchetti senza precipitare in una crisi isterica per il denaro speso. Ma avevo imparato anche che esisteva la tredicesima, cioè un altro po’ di soldi a fine anno, che valevano molto più di Babbo Natale, della slitta e delle renne messi insieme. Lorenzo mi aveva assicurato che Natale c’era tutti gli anni, perciò ero abbastanza sicuro che, come l’anno precedente, mio padre sarebbe tornato a casa con un insolito buonumore che sarebbe durato più o meno tutte le vacanze, che avrebbe portato il pandoro e lo spumante della ditta, ci avrebbe accompagnato fuori a vedere la banda suonare, avrebbe abbracciato mia madre, sarebbe sembrato meno vecchio e non avrebbe avuto gli occhi gonfi e rossi e lo sguardo da assassino. Se era vero quello che mi aveva detto Lorenzo, anche quell’anno a scuola ci sarebbe stato lo spettacolo, Caterina avrebbe partecipato alla recita, Ivo avrebbe cantato nel coro della chiesa e io avrei usato di nuovo la polvere colorata per decorare le ali degli angeli. Erano tutte cose che mi toglievano il sonno e non vedevo l’ora che passassero i primi giorni del mese. Mi fidai di Lorenzo e, seguendo le sue istruzioni, finsi di credere a Babbo Natale e gli scrissi una lettera strappalacrime, la piegai e andai a consegnarla con largo anticipo a mia madre.

La trovai in cucina che strofinava vigorosamente lo sportello del frigorifero con uno straccio. Mi avvicinai e le dissi che avevo scritto la lettera per Babbo Natale. Lei mi guardò, lanciò un’occhiata spaventata al pezzo di carta, mi guardò ancora e tornò a strofinare il frigorifero. Io restai con il braccio sollevato a mezz’aria senza sapere che fare. Aspettai ancora un po’ finché lei, continuando a darmi le spalle, disse di chiamare tutti per una riunione di famiglia.

Sarà stato che erano le quattro del pomeriggio, il momento esatto in cui la luce del giorno veniva smorzata dall’arrivo precoce della sera e ciò che fino a un attimo prima era nitido si offuscava, sarà stato che il tono della voce di mia madre aveva qualcosa di diverso dal solito e sembrava non appartenerle, sarà stato che mi accorsi di uno strano silenzio rotto dal gocciolio del rubinetto che picchiettava a intervalli regolari sul fondo di un piatto o semplicemente per il fatto che mi sembrasse inutile insistere a strofinare una superficie già fin troppo pulita come mia madre stava facendo da ore col frigorifero, sarà stato per tutti quegli indizi messi insieme ma venni assalito da un brutto presentimento, qualcosa era cambiato all’improvviso e non seppi spiegarmi come ma temetti di essere appena entrato in un mondo diverso dal solito e mi sentii smarrito.

Quando tornai in cucina con Ivo, Caterina, Lorenzo e Maria, trovai Giulia seduta al tavolo con il libro nero e il libro blu davanti a sé e mia madre in fondo, come una statua, tra il lavello e la finestra, con le dita intrecciate come se stesse premendo qualcosa tra i palmi con forza, gli occhi chiusi e la testa bassa. Era così concentrata che mi aspettavo di vederla sollevarsi dal pavimento e fluttuare in aria, e quando aprì gli occhi non la riconobbi più. Questa non è mia madre, pensai per un attimo, non le assomiglia nemmeno. Ci fissò con uno sguardo intenso e disse che doveva comunicarci una cosa importante. Poi si allontanò dal lavello e avanzò lentamente verso il tavolo con il passo solenne, come i sacerdoti nei film, quando ci sono le scene di sacrifici umani. Si sedette a capotavola, vicino a Giulia, le mani distese sul piano del tavolo, un sorriso appena accennato, un po’ tirato dallo sforzo imposto dalla concentrazione. Rivolse un’occhiata a Giulia e lei fece sì con la testa, come per darle coraggio. Cominciò dicendo che aveva il compito di condurci sulla retta via, che era lì per salvarci e che se avessimo seguito i suoi consigli non saremmo morti mai. Dopo quella premessa ci informò subito che il 25 dicembre non era il giorno della nascita di Gesù ma una data satanica in cui nell’antichità veniva festeggiata la nascita del dio Sole e si celebravano orge e baccanali; che i pastori non portavano le pecore al pascolo in pieno inverno e solo il diavolo poteva far credere a una storia del genere; che la stella cometa era un’idea del demonio per permettere a Erode di individuare l’esatta posizione della mangiatoia e uccidere il bambino; che i re Magi non erano altro che astrologi seguaci del già citato Satana e a causa loro c’era stata la strage degli innocenti. Di conseguenza, a partire da quell’anno, non avremmo più festeggiato il Natale, non avremmo allestito presepi né addobbato l’albero, non ci sarebbero stati regali, non avremmo partecipato ai pranzi e ai cenoni con i parenti né scambiato gli auguri con nessuno, non avremmo cantato le canzoni di Natale o recitato le poesie di Natale e nemmeno negli spettacoli di Natale, e più mia madre scendeva nei dettagli più mi sentivo come se mi stessero strappando i denti uno per uno senza anestesia.

«Vuol dire che non potrò partecipare alla recita di Natale?» domandò Caterina.

«Esatto» rispose mia madre.

«Ma mi hanno già assegnato la parte! Quest’anno dovevo fare la Madonna.»

«Motivo in più per non farlo. Lo sai cosa pensiamo della Madonna.»

«Che venerarla è un atto satanico.»

«Giusto, figuriamoci recitare la sua parte per la festa di Natale.»

Non era proprio quella che si definiva una bella notizia e infatti Caterina si rabbuiò e abbassò la testa. Anche gli altri non sembravano molto contenti della decisione di mia madre, ma nessuno intervenne. Guardai Lorenzo, avrei voluto dirgli che era un bugiardo, che non era vero che tutti gli anni si festeggiava il Natale, ma anche lui aveva gli occhi bassi. Ivo non diceva una parola, tanto meno Maria.

«So che vi dispiace» disse mia madre dopo un breve silenzio «ma non credete che per ottenere la vita eterna valga la pena fare un sacrificio adesso?»

In effetti, messa così era difficile darle torto. Mancava così poco alla fine del mondo che non conveniva perdere la vita eterna per una semplice festa. E poi, se lo diceva mia madre, non poteva essere sbagliato. Lei non mi avrebbe mai fatto del male, non me l’aveva mai fatto, e anche quella volta, per quanto fosse difficile accettarlo, sapevo che mi potevo fidare. Se mia madre diceva che saremmo sopravvissuti alla fine del mondo, significava che era vero. Scesi dalla sedia e tirai fuori la letterina dalla tasca, la esposi come un manifesto davanti a tutti, ci sputai sopra dicendo qualcosa tipo «letterina satanica» e la gettai nella spazzatura sotto gli sguardi sofferenti dei miei fratelli. Quando tornai al tavolo mia madre mi abbracciò e mi disse che ero stato bravo e io mi accorsi che era felice.

(continua in libreria)