Per non dimenticare l'insurrezione del ghetto di Varsavia... - Affaritaliani.it

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Per non dimenticare l'insurrezione del ghetto di Varsavia...

Giuntina

L'INTRODUZIONE DEL LIBRO
 

di Wlodek Goldkorn

 

Ad Arturo e Pietro

 

ghetto

È  il 9 maggio 1943 a Varsavia. L'insurrezione nel ghetto, iniziata il 19 aprile, volge verso la  fine. Il quartiere ebraico della capitale polacca è un ammasso di macerie. Il giorno prima, nel bunker di via Mila 18, si era suicidato Mordechaj Anielewicz, il comandante dell'Organizzazione  di combattimento (Zob), assieme ai suoi più vicini compagni: ha preferito darsi la morte, pur di non cadere vivo nelle mani dei tedeschi. Forse, ha pensato di trasformarsi così in una leggenda che sarebbe sopravvissuta e si sarebbe propagata per decenni, nel mondo. E infatti, in tutte le città dello Stato d'Israele e in molte della Polonia ci sono oggi strade intitolate all'eroe caduto in  campo di battaglia, poco più che ventenne. Ma non tutti i suoi compagni la pensano come lui. Sicuramente voleva   continuare a vivere Marek Edelman, comandante in seconda dell'Organizzazione: 220 ragazze e ragazzi che hanno saputo resistere, per primi in Europa, armi in pugno agli eserciti di Hitler. Quel 9 maggio dunque Edelman, con una quarantina dei suoi compagni, scende nelle fogne di Varsavia. Devono raggiungere, camminando immersi fino al collo nella melma e nella merda, un tombino dell'altra parte del muro che divide il ghetto dalla parte ariana. Li  dovrebbe  attenderli un loro commilitone, per portarli  in un luogo sicuro. Ma sono  solo combattenti, i quaranta guidati da Edelman e che vogliono raggiungere l'altra parte della città? No. Tra di loro ci sono anche  ragazze che nel ghetto facevano la vita.  Prostitute, di quelle che stando alle testimonianze dello stesso Edelman gli davano “un panino fresco ogni mattina”,  curavano, nei giorni della battaglia i feriti – hanno nutrito, nel bunker di via Franciszkanska, con dedizione Lusiek Blones, il più giovane soldato dell'insurrezione: aveva tredici anni ed era stato ferito in battaglia a un labbro.  Chiedono di continuare a far parte del gruppo. Sono   ragazze gentili, simpatiche. Vogliono  vivere. Edelman le  caccia via.  Alla domanda: possiamo venire con voi? risponde: no. Il loro destino è stato così segnato.
 
Per lunghi anni, Marek Edelman, sebbene raccontasse questo episodio, rifiutava di rispondere alle insistenti, fin troppo forse, domande sulle ragioni di questo suo gesto. Era un atto dovuto all'eccesso di moralismo? E se sì, perché non rispondere a una semplice domanda:  e si vergognava di quel gesto? O forse non aveva una risposta, lui che aveva una reazione  pronta a ogni sollecitazione?

Poi, un giorno, pochi anni prima di congedarsi da questo mondo e da tutte le persone che gli volevano bene, seduto in poltrona nel modesto ma molto elegante salotto della sua casa di Lodz, mentre si stava chiacchierando delle cose di ogni giorno, ecco che all'improvviso è lui a ripetere la domanda. Un'ombra di imbarazzo  che si legge negli occhi (si dice spesso che gli occhi sono lo specchio dell'anima, ma gli occhi di Marek erano qualcosa di più: trasmettevano calore, amore,  ironia e divertimento, qualche volte rabbia difficilmente  controllabile, e non di rado un'inconsolabile tristezza). “Vuoi sempre sapere perché non ho permesso a quelle  puttanelle di uscire dal ghetto?”, chiede all'improvviso, quasi in modo da cogliere in fallo l'interlocutore, colpevole e comunque sospettato di scarsa attenzione e poca preparazione. “No. Non ti voglio mettere in imbarazzo. E poi è  successo 65 anni fa,  non ha più nessuna importanza”, rispondo. “E invece te lo racconto”. Come sempre è lui a dettare i tempi e le regole di ogni gioco. “Sai”, abbassa gli occhi, “era una situazione strana. Io non me la sono sentita di fidarmi di  persone,  estranee. Loro con non noi c'entravano niente”. Cerca il mio sguardo: “Ti sembra una storia troppo semplice? Lo so. Ma era così, forse ero un po' folle”. 

Gli dispiaceva, giunto all'età di 88 anni, di non aver salvato le due vite? Penso di sì. Penso anche che la cosa più importante che Edelman ha insegnato a chi gli era vicino è questa: la memoria è viva perché cambia ed evolve seguendo il percorso, intimo ma anche pubblico, di ogni persona. Per dirla tutta: la memoria è condizionata anche dalla situazione storica, civile, politica, esattamente come dalla politica, dalla condizione civile e dalla storia  dipende in larga parte la nostra vita e il nostro sguardo sul mondo.

Prendiamo il caso Wiera Gran, una vicenda estrema, per quanto riguarda l'uso e la sostanza della memoria. Wiera Gran dunque, nasce nel 1916, con il nome di Weronika Grynberg. La sua storia è stata raccontata dalla scrittrice Agata Tuszynska in un libro bello e inquietante “Oskarzona Wiera Gran” ( l'accusata Wiera Gran). Era una ballerina di fila, negli anni Trenta, in un cabaret di Varsavia. Un giorno, come nelle storie raccontate da Hollywood, fece sentire la sua voce al patron del locale. Aveva allora 17 anni. In breve tempo, bellissima, affascinante, sensuale,  diventa una star della canzone polacca. Nella città occuppata dai nazisti,  come gli altri ebrei finisce nel ghetto. Qui si esibisce sempre come cantante nel Café Sztuka (caffè dell’arte). Era un locale frequentato dai ricchi del ghetto,  non di rado collaboratori della Gestapo. Era a due passi dalla sede della famigerata Tredici: l'ufficio della lotta allo strozzinaggio, un gruppo di profittatori, spie di nazisti, di cui alcuni capi vennero condannati a morte e uccisi dai ragazzi dell'Organizzazione ebraica di combattimento. Ma Café Sztuka dava anche da mangiare agli artisti. Vi suonava il pianista Wladyslaw Szpilman, immortalato nel film di Roman Polanski, vi recitava le sue opere il poeta Wladyslaw Szlengel. Fuggita dal ghetto, pochi mesi dopo la liberazione di Varsavia da parte delle truppe sovietiche (e siamo nel 1945) Wiera Gran viene arrestata. L'accusa: connivenza col nemico. A volerla condannata  sono alcuni suoi colleghi. Tra le testimonianze a suo carico - anche se non è la più importante – c'è  quella di Edelman (lui non frequentava il locale: “era gente di altro tipo che ci andava”, mi disse una volta). Wiera Gran viene comunque rilasciata per  mancanza di prove, ma siccome le voci e le accuse continuano, se ne va in Israele, e siamo nel 1950.  Qui viene accolta con altre voci e altre accuse: boicottano i suoi concerti. Si trasferisce a Parigi. Ha successo: canta con Charles Aznavour e Jacques Brel. Ma rimane marchiata con il segno di Caino: una che si era venduta ai tedeschi. Impazzisce,  diventa paranoica, non esce dalla sua casa parigina. La rintraccia la scrittrice Tuszynska. Il caso si riapre (con pesanti accuse fatte dalla Gran nei confronti di Szpilman). Per noi l'importante è un'altra cosa: a un certo punto, ormai nel Terzo Millenio, Edelman ha cercato il contatto con la Gran. Stando al libro della Tuszynska le ha telefonato per chiedere scusa. E comunque ne parla bene nell'ultimo suo testo “C'era l'amore nel ghetto”, in Italia pubblicato da Sellerio; dice che è stata Wiera Gran ad avvertire, per telefono, dalla parte ariana, la Zob, il 18 aprile, dell'imminente offensiva tedesca. Quindi lavorava con la resistenza?  E quella testimonianza? “I tempi erano quelli”, è la  spiegazione di Edelman.

Ma allora, cosa è successo? Niente di strano inspiegabile.  Nel 1945 era necessario, anzi indispensabile esaltare l'eroismo di coloro che hanno resistito armi in pugno ai nazisti. Per farlo era altrettanto necessario raffigurare e immaginare il mondo come lo facevano i pittori in certi quadri del Quattrocento: martirio al  centro; coraggio e bontà di qua; viltà e malvagità di là. Ecco perché si voleva condannare chi  invece cercava una via di salvezza privata, forse al confine del lecito (ma chi, oggi, può dire con certezza cosa era lecito?) Tanto che nel libro che voi lettori avete in mano  e che è una specie di rendiconto, scritto a caldo, sul  ruolo che il Bund  ha avuto nella preparazione  e nell'insurrezione del ghetto (e ci torneremo), Edelman accusa spesso i poliziotti ebrei di totale complicità coi nazisti. 50 anni anni dopo, avrà comprensione pure per quei poliziotti, dirà che molti di loro erano persone oneste e agivano in buona fede.

La memoria che cambia. Sempre nel libro che avete tra le mani Edelman racconta  che all'uscita dalle fogne, dalla parte ariana, i combattenti erano attesi da due camion, con cui sono partiti  per il boschetto di Lomianki. Erano davvero due? Nelle conversazioni, trascritte  nel libro “Il guardiano. Marek Edelman racconta”,  diceva che una volta dalla parte ariana, il gruppo è  salito su un camion solo. E nella concitazione (ebrei armati in pieno centro della città controllata dai tedeschi), all'improvviso qualcuno gridò: “Ci sono dei nostri rimasti dentro”. Marek diede l'ordine ad alcuni compagni di andare a cercarli. I prescelti ritornarono nel tombino. A quel punto, Kazik (Simcha Rotem, il suo vero nome, oggi abita in Israele), colui che organizzò  tutto, disse a Marek: dobbiamo partire, non ti preoccupare, tra poco arriva il secondo camion. Il gruppo di resistenti parte. Di coloro che sono rientrati nel tombino si perdono le tracce. Il secondo camion non è mai arrivato.

In polacco “Il guardiano” è uscito nel 1999. Un giorno, in Israele, appena entrato in casa di  miei genitori, chiamo Marek al telefono, a casa sua a Lodz.  “Devi contattare Kazik, immediatamente”, mi dice. Chiamo Kazik. “Ah, sei tu. Ti devo parlare. Vieni subito a casa mia”. All'indomani mi presento  nella bella casa di Kazik a Gerusalemme. Mi porta nel salotto: “Ma come ti è venuto in mente di raccontare la balla di due camion. E a Marek come gli è venuto in mente di dirlo? Come ha potuto? Io non gli ho mai parlato di due camion, ma di uno solo. La decisione di partire è stata sua. Era lui il comandante. Prima di farti scrivere queste cose, poteva chiedermi, poteva chiarire. Non ci si comporta così tra compagni”. 

Non ci sono solo le contraddizioni e l'evoluzione della memoria. C'è anche l'oblio. Come nella  vicenda di Juergen Stroop, l'uomo che guidava le forze naziste nella lotta contro gli insorti del ghetto, e che diede l'ordine di radere al suolo il quartiere ebraico della capitale polacca. Stroop, finita la guerra venne arrestato, processato dal tribunale  militare americano e condannato a morte per l'uccisione di aviatori alleati catturati. Estradato in Polonia, fu nuovamente processato, condannato a morte e impiccato nel luogo dove era sorto il ghetto. Verso la fine degli anni Quaranta, mentre la giustizia polacca istruiva il processo, Marek Edelman è stato chiamato a un confronto con Stroop. Entrato Edelman nella stanza, l'ex generale nazista si mise sull'attenti, battendo i tacchi. Edelman ha raccontato più volte quanto lui invece voleva lasciare al più presto la stanza. Non era interessato alla  sorte di Stroop, non voleva avere niente a che fare con questa storia. Ha scritto Jacek Holowka,  in occasione del conferimento a Edelman del dottorato honoris causa dell'Università di Cracovia: “Non cercava vendetta”. O forse, l'ipotesi è mia, capiva che non c'è vita senza oblio.
 
E per quanto duro sia accostare i due nomi, e par quanto paradossale possa sembrare, all'insegna dell'oblio è stato pure il modo con cui Edelman ha sempre voluto ricordare  Anielewicz,  il comandante. Ma prima di entrare nella vicenda: una manciata di informazioni sui protagonisti. Sono tutti poco più che ventenni. Il primo: Anielewicz, fa parte del movimento sionista dell'estrema sinistra Hashomer Hatzair (giovane guardia).  La seconda è Celina Lubetkin (il suo nome ebraico è Tsivia). Lubetkin, assieme al  suo compagno di vita Itzhak Cukierman (nome di battaglia Antek: è stato uno dei vicecomandanti della Zob; al momento è dalla parte ariana, per tenere contatti con la resistenza polacca), è  militante di un altro gruppo sionista, Hekhalutz (il pioniere), sempre di sinistra. I tre: Marek, Celina e Antek sono legati da una grande amicizia. Pensano e sentono le cose allo stesso modo. Spesso sono polemici con gli altri compagni del comando della Zob. Rimarranno amici per sempre, nonostante le divergenze ideologiche e politiche, finché (è il caso di dirlo) la morte non li abbia  separati. E ora, soffermiamoci  su alcuni fatti e giudizi noti. Edelman ha sempre menato  una polemica (postuma) con la scelta di Anielewicz di suicidarsi. Pensava, che comunque e sempre occoresse provare a trovare una via d'uscita. Argomentava dicendo, che in quel bunker affolatissimo un gruppo di persone, per lo più ragazze, non ha ceduto   all'atmosfera dell'“isterismo”, parole sue, e si è salvato. Sappiamo anche che un giorno Anielewicz, in una strada del ghetto, uccise due Werkschutz (soldati di quarta categoria tedeschi), senza un apparente motivo. In rappresaglia i nazisti fucilarono duecento abitanti dei palazzi intorno. Ci fu una drammatica riunione del comando della Zob. Marek aveva il mandato di chiedere la destituzione di Anielewicz. Sappiamo anche che il comandante si difese dicendo: “Quegli ebrei sarebbero morti lo stesso”. Sappiamo pure, che questa  risposta  mandò su tutte le furie Marek (e qualcun altro). “Noi dobbiamo difendere ogni giorno ogni vita di ogni ebreo”, gli risposero. E sappiamo, che Marek capì, durante la riunione, di non poter chiedere le dimissioni di Anielewicz, perché “lui ci teneva a essere il comandante e la sua destituzione sarebbe stata  la fine della Zob”.

E ora  proviamo a riflettere su quegli ultimi giorni di Anielewicz, appunto. Arriva, assieme alla fidanzata Mira Fuchter e a Celina Lubetkin (la quale più tardi andrà a vivere in Israele, sarà testimone al processo Eichmann, lodata da Hanna Arendt) la notte del 7 maggio nel bunker di Marek in via Franciszkanska.  I tre rimangono in quel bunker fino alla notte dell'8 maggio, quando Edelman chiede  loro, più volte, di restare per un'altra notte ancora. Anielewicz e Fuchter declinano l'invito (Celina rimane) e tornano  in via Mila 18. Durante quella notte e quel giorno in cui sono stati insieme, mentre il ghetto praticamente non esisteva più, che cosa si sono detti il comandante e il suo secondo? Edelman non ha mai risposto a questa domanda. Qualche volta l'ha evasa con cura: “Non sono in grado di raccontare gli accadimenti delle singole giornate”. E allora, è lecito pensare che quella conversazione non fosse del tutto serena? Ed è lecito domandarsi in che stato d'animo era Anielewicz? E per quale ragione Edelman ha tanto insistito perché  rimanesse sotto la sua tutela? E Celina è rimasta lì, solo perché, come diceva lui, gli “ha sempre ubbidito”? 
Eppure, con molta insistenza e sempre, Edelman ribadiva quanto segue: “L'importante è che ci sia una leggenda. La leggenda per esistere deve essere legata a un solo nome. Quel nome è Anielewicz. L'insurrezione è lui”.

(Può darsi che perché la memoria possa essere trasmessa alle generazioni del futuro, occorra gettare nell'oblio alcune parole e gesta del passato -e astenersi dal  raccontare, forse, tutta la verità).

Marek Edelman è nato il 1 gennaio 1919 a Homel. Quando è bambino, la famiglia si trasferisce a Varsavia. Del padre non ha ricordi, se non di una volta quando: “stavo sulle sue ginocchia”. La madre Cecylia è un'attivista del Bund. E' morta nel 1934. Marek aveva allora 15 anni. E' un ragazzo politicizzato: come quasi tutti i figli dei bundisti, ha fatto parte della Skif (Sotsyalistisher kinderfarband, Unione socialista dei  bambini). Il Bund non era infatti solo un partito, ma un'organizzazione che cercava di costruire una specie di società parallela: associazioni di ragazzi, club sportivi, biblioteche, reti di scuole, sanatori per bambini malati, sindacati, giornali e case editrici. Nel 1997, durante i festeggiamenti del  suo centesimo annivversario, a New York, Edelman disse: “Il Bund è stato la mamma di noi tutti”. Certamente, lo è stato un po' per lui. Da orfano, è stato preso, per così dire, in carico dalle compagne e dai compagni della mamma. Sono stati loro ad aiutarlo e permettergli di finire i suoi studi liceali. Nel bel libro di Witold Beres e Krzysztof Burnetko, “Marek Edelman. Zycie po prostu” (Marek Edelman, semplicemente un vita), dice: “Ero sempre aggregato alle organizzazioni bundiste. Forse un po' mi hanno cresciuto le mamme degli amici”. In realtà, riesce a raccimolare un po' di soldi, dando lezioni private di polacco. E abita presso gli amici della madre, i Lichtenstein, attivisti del partito.

Il Bund (Yiddisher Algemeiner Arbeter Bund, Lega generale dei lavoratori ebrei) nasce a Vilnius nell'ottobre 1897. Al congresso di fondazione partecipano 13 persone. Otto sono operai, gli altri cinque intellettuali. Vilnius, oggi capitale della Lituania, è una città particolare: abitata da polacchi, ebrei, russi, lituani. Le lingue, le fedi, gli usi e costumi differenti si mescolano in un insieme non certo armonico, ma vivibile. Vilnius è anche un luogo in cui grazie alle contaminazioni fra le varie culture nascono e crescono fermenti rivoluzionari, innovativi. Uno di questi è appunto il socialismo. Per gli ebrei,  nell'impero zarista  l'oppressione è doppia. Sono discriminati in quanto ebrei: le forze della reazione li vogliono fuori dai confini del paese; è punto. Infatti molti emigrano, prima di tutto in America, e poi – i sionisti- in Palestina. Ma gli ebrei sono vittime anche in quanto proletari. Per il Bund la soluzione dei problemi sta in una Russia socialista, dove ogni nazionalità possa godere dei propri diritti collettivi. Si auspica una autonomia nazionale e culturale per gli ebrei: scuole in yiddish, il diritto di usare quella lingua nei tribunali, lo sviluppo di una letteratura, di una stampa, di teatri, sempre in yiddish. “Non siamo una piccola percentuale degli altri, siamo il 100 per cento di noi stessi”, scriverà un intellettuale vicino al Bund, Chaim Zhitlovski. Ma prima di tutto, il Bund difende la dignità degli ebrei, dei più umili tra gli umili, di coloro che vengono disprezzati, ammazzati nei pogrom, spinti ad abbandonare le loro case per cercare fortuna altrove. E così, quando le squadracce delle centurie nere, bande di delinquenti al soldo del regime zarista, inscenano i pogrom, i ragazzi del Bund organizzano gruppi di autodifesa. Armi in pugno combattono i nemici. Diventa  leggenda (e indicazione di come si debba agire) l'episodio, accaduto nel 1902. Il primo maggio del 1902 di quell'anno, a Vilnius viene organizzata una manifestazione. Il raduno viene disperso dai cosacchi. Ventisei tra gli arrestati: venti ebrei e sei polacchi, per ordine del governatore zarista von Wahl, come punizione sono frustati in  pubblica piazza. In risposta, il 18 maggio, un giovane apprendista calzolaio, Hirsh Lekert, tenta di uccidere von Wahl, ma, poco esperto dell'uso della pistola, manca il bersaglio. Il giorno dopo viene impiccato. Ne nasce una leggenda e una canzone:

“Quando salì sul pattibolo Hirshke disse:
Fratelli e sorelle, conserverete per sempre
la mia memoria. E canterete la mia canzone.
E vi vendicherete contro i tiranni”.

La resistenza armata nel ghetto, è stata possibile anche perché ci sono stati dei ragazzi e ragazze che la memoria di Hirsh Lekert l'hanno voluto e saputo conservare: erano dei giovani convinti fin da quando erano bambini che la dignità vale quanto la vita, o forse qualcosa di più. Un'altro canto (di Chaim Aleksandrov) recita infatti:

“Fratello, abbiamo forgiato
Un patto per la vita e per la morte
Noi siamo compagni di combattimento
Bandiera rossa in pugno

Se una pallottola ti colpisce
Una pallottola del nemico, il cane,
Ti allontano dal fuoco della battaglia
E con miei baci curo le tue ferite

E su cadi morto
I tuoi amati occhi serrati
Ti avvolgo nella rossa bandiera
E cado anch'io nella sanguinosa lotta”.

Non bisogna mai sottovalutare la retorica del Bund, perché essa diventava pratica quotidiana. E basta guardare le foto delle squadre di combattimento: ragazzi seduti in cerchio, pistole e coltelli in mano, i corpi dei compagni caduti avvolti appunto nelle rosse bandiere, a dimostrare la fedeltà e la lealtà reciproca che neanche la morte può sciogliere. Un canto di Sholem Ansky, grande poeta e insigne etnografo, chiamava i  ragazzi del Bund ad assolvere un compito quasi trascendentale: eliminare l'infelicità degli umani.

“Nell'immensità salata delle lacrime umane
S'apre un abisso terribile
Oscuro e profondo
Un flusso di sangue lo ha marchiato

 (…)

Chi alla fine salverà il lavoratore
Dalla fame e dalle infinite sofferenze?
Chi gli mostrerà la strada della libertà
Verso la fratellanza, l'uguaglianza, la felicità?

L'operaio libererà il mondo e lo salverà
Perfino dal fondo dell'abisso
Evviva in Russia, Lituania e Polonia
la Lega dei lavoratori ebrei”


E ancora, per capire la portata  di questa retorica dove  la lotta operaia coinvolge elementi cosmici,  ecco l'inno ufficiale del Bund. Il testo è sempre di  Sholem Ansky.


“Il giuramento

Fratelli e sorelle del lavoro e del bisogno,
Voi tutti che siete sparpagliati,
Insieme, insieme, la bandiera è pronta,
Si agita di rabbia, di sangue è rossa!
Al giuramento, al giuramento a vita e oltre la morte!

Il cielo e la terra ci ascolteranno,
Testimoni le stelle luminose
Un giuramento di sangue e di lacrime
Noi giuriamo, noi giuriamo!

Noi giuriamo di combattere per la libertà e la giustizia
Contro tutti i tiranni e i loro servi.
Noi giuriamo di sconfiggere l'oscurità della notte
O altrimenti di morire in battaglia con il coraggio degli eroi.

Il cielo e la terra ci ascolteranno,
Testimoni le stelle luminose
Un giuramento di sangue e di lacrime
Noi giuriamo, noi giuriamo!

Noi giuriamo di preservare un odio sanguinario
Per coloro che derubano i lavoratori e per gli assassini della classe operaia,
L'imperatore, i potenti, i capitalisti
Giuriamo di annientarli e di distruggerli.

Il cielo e la terra ci ascolteranno,
Testimoni le stelle luminose
Un giuramento di sangue e di lacrime
Noi giuriamo, noi giuriamo!

Noi giuriamo di condurre la sacra lotta
Finché un mondo nuovo non sorgerà.
Né mendicante né ricco né padrone né schiavo!
Debbono diventare uguali il potente e lo schiavo!

Il cielo e la terra ci ascolteranno,
Testimoni le stelle luminose
Un giuramento di sangue e di lacrime
Noi giuriamo, noi giuriamo!

Noi giuriamo la fedeltà senza limiti al Bund
Solo lui può liberare gli schiavi, ora.
La sua bandiera, la bandiera rossa è alta e luminosa.
Noi gli giuriamo la fedeltà a vita e oltre la morte!

E del resto, Marek Edelman ha sempre raccontato come la resistenza armata nel ghetto fosse possibile perché si cantava insieme (anche “Bandiera rossa”) e ci si fidava gli uni degli altri, perché il tradimento non era neanche un'ipotesi remota.

Ma torniamo alla storia del Bund. In realtà ne sono esistiti due. Il primo, quello dell'Impero zarista, cessa la sua esistenza dopo la presa di  potere da parte dei bolscevichi. Il secondo, cresce nella Polonia  indipendente, dopo il 1918. I suoi due leader indiscussi sono Henryk Erlich e  Wiktor Alter. Era nato a Lublino, nel 1882, Erlich, in una famiglia ortodossa. Il padre  voleva impedirgli di frequentare il liceo: temeva  che diventasse empio. Studente alla Facoltà di Giurisprudenza a Varsavia, poi a San Pietroburgo scopre il socialismo. A San Pietroburgo conosce e sposa Sophie Dubnov, figlia di Simon Dubnov, uno dei padri della storiografia ebraica moderna (verrà ucciso nel ghetto di Riga nel 1941, all'età di 81 anni). Nel 1918 torna in Polonia. Giornalista, avvocato (è stato difensore di imputati ai processi politici) entra a far parte del Consiglio municipale di Varsavia. E' una carica a cui ci tiene molto. Per i bundisti, poter esprimere il proprio parere e  incidere sulle decisioni delle ammnistrazioni locali era più importante che  partecipare alle elezioni parlamentari.  Wiktor Alter, otto anni più giovane di Erlich, era nato nel 1890, a Mlawa in Polonia centrale. Orfano del padre, con la madre si trasferisce a Varsavia. Nel 1905, partecipa alla rivoluzione nell'Impero zarista. Quella del 1905 è una rivoluzione che segna profondamente il Bund. In quei mesi, che sconvolsero fin dalle fondamenta le città dell'impero, il Bund appunto, in alcune località, ha praticamente assunto di fatto il controllo delle strade e delle piazze dei quartieri ebrei. Al Bund ci si rivolgeva per risolvere liti condominiali, ma anche questioni di famiglia. Gli operai maschi, giuravano solennemente, ai comizi organizzati dal Bund, di non frequentare più le prostitute e davano la caccia ai loro protettori. Alter, comunque è costretto a fuggire all'estero. Torna a Varsavia nel 1912, è arrestato, viene deportato in Siberia. Fugge di nuovo, verso il Belgio e Londra. Nel 1917 è di nuovo a fare politica in Ucraina e a Mosca. Arrestato dai bolscevichi e rilasciato, approda a Varsavia. Stringe l'amicizia con Erlich. I due diventano una specie di binomio Erlich-Alter. E, senza tema di esagerare, si può affermare che nessun partito politico al mondo ha avuto due leader di simile integrità morale, lungimiranza strategica, dedizione alla causa e abnegazione di ogni narcisismo. Erlich era riflessivo, pacato, portato alla teoria. Alter impulsivo, uomo d'azione. Viaggiava molto (era in Spagna durante la guerra civile, partecipava ai raduni dell'Internazionale socialista). Anche lui, fin dal 1919, consigliere comunale a Varsavia, era  particolarmente fiero della democrazia interna al Bund e dell'atmosfera di trasparenza e fiducia reciproca, che a sua volta portava l'universo bundista a diventare una specie di scuola della libertà. “Un buon cattolico deve credere che il papa sia infallibile. Un buon comunista è obbligato a credere che Stalin non sbaglia mai. Il buon bundista ha invece il dovere di chiedersi sempre se il partito sia sulla giusta strada”, scriveva nel 1937. Un altro militante del Bund, quell'atmosfera  la sintetizzava così: “Da noi anche il più giovane bambino della Skif è incoraggiato a criticare i più autorevoli membri del Comitato centrale”.

Marek Edelman, era cresciuto  come un giovane militante della Skif. E da ragazzo aveva frequentato la casa di Erlich (il figlio Viktor, diventato dopo la guerra professore di slavistica negli States, lo aiutava negli studi).

Il 1 settembre 1939, la Germania nazista invade la Polonia. Il 17 dello stesso mese, in soccorso di Hitler arriva Stalin, l'Armata rossa occupa la parte orientale del Paese; più tardi nella città di Brest Litovsk le truppe naziste e quelle sovietiche sfileranno assieme in una specie di manifestazione di fratellanza d'armi.  I membri del Comitato centrale del Bund, lasciano Varsavia e  si trovano nei territori invasi dall'Armata Rossa. Erlich e Alter vengono arrestati e condannati a morte. Nel giugno 1941 Hitler tradisce Stalin: le truppe tedesche invadono l'Urss. Nel settembre 1941, due mesi dopo, i due leader del Bund sono rilasciati, assieme a migliaia di cittadini polacchi. Tentano di organizzare un Comitato antifascista ebraico. Di nuovo arrestati, periranno nelle carceri sovietiche. Stando ai certificati di decesso, trovati negli archivi sovietici, Erlich avrebbe commesso suicidio il 14 maggio 1942, mentre Alter sarebbe stato fucilato il 17 luglio 1943. Edelman a quella versione di  fatti non ha mai creduto.

Marek Edelman invece prosegue le sue attività a Varsavia. Anzi, fuggito pure lui dalla capitale nel settembre, alla fine dello stesso mese ci torna. Lo fa per dovere di militante, ma anche per amore. E' legato a una ragazza un po' più grande di lui, Stasia (in realtà si chiama Ryfka Rozensztajn). Lei è anche fidanzata con un altro militante bundista (sarà uno degli eroi dell'insurrezione nel 1943) Welwl Rozowski; nome di battaglia Wlodek. Nel loro libro Beres e Burnetko scrivono: “Nel ghetto  Marek veniva definito come il marito della moglie di Welwl, o qualche volta di Rozowski si diceva che fosse il marito della moglie di Marek”. Lui ha sempre ripetuto che da Stasia  ha imparato come si deve vivere, e che senza di lei sarebbe stato una nullità. Un'esagerazione certamente, ma anche un grande tributo d'amore. Pur essendo un personaggio carismatico, spesso scostante e dall'aria piuttosto altera, Marek senza amore (ricambiato),  era incapace di vivere. Non era (contrariamente alle apparenze – e tanti giornalisti non l'hanno capito) un uomo solitario: durante tutta la sua esistenza cercava sempre di costruirsi intorno una famiglia e un cerchio di persone cui voler bene.

In ogni caso, c'erano altre due persone, senza le quali Edelman non sarebbe stato quell'eroe che abbiamo conosciuto. Il primo è stato Artur Zygielbojm, il secondo (ma non per ordine di importanza) Abrasza Blum. Alla memoria di Abrasza è dedicato il libro che avete in mano, e ne leggerete parecchio, perché molte pagine parlano di lui.  Era l'uomo che ebbe una tale fiducia in Marek da incaricarlo, nel ghetto, di ogni responsabilità possibile. Quando ne parlava, a Marek, mancavano le parole. Parlavano invece gli occhi. E' morto a Varsavia, Abrasza, poco dopo la fuga attraverso il sistema fognario. L'uomo che lo nascondeva lo ha tradito. Arrivata la Gestapo, Abrasza tentò di calarsi dalla finestra. Cadde in terra. Si ruppe le gambe. Fu arrestato. Venne  fucilato. E Marek, da allora e fino al suo ultimo giorno, probabilmente aveva o dei sensi di colpa per quella vicenda. Forse (ingiustamente) si rimproverava, non di averlo abbandonato, ma di non aver custodito e tutelato a sufficienza, colui, che gli ha  fatto da padre, da fratello maggiore e guida, nei momenti più difficili. Un legame così forte, testimoniato anche della lettera, che il 30 ottobre 1945, pochi mesi dopo la fine della guerra, ha scritto  Luba Bielicka, la vedova di Abrasza Blum, a Lucjan Blit, un attivista del Bund, che allora si trovava a Londra.
“Ti prego di occuparti di Marek Edelman. (…) Me ne ha raccontato Abrasza, dopo l'uscita dal ghetto ancora in lotta e in fiamme. Abrasza aveva ancora la bocca arsa dagli incendi (…) e forse per paura che qualcosa potesse accadere e che non avrebbe più potuto raccontare, ha cominciato subito a parlare di Marek e del suo straordinario eroismo(...)”.

Zygielbojm, invece, nome di battaglia Artur, è stato  sindacalista, consigliere comunale per il Bund al municipio di Varsavia, un leader del Partito. Era nato poverissimo, non ha potuto  frequenatre le scuole. Fin da bambino ha dovuto  lavorare per aiutare la famiglia. Sulle prime, era rimasto nella capitale occupata dai tedeschi, con  falso passaporto riuscì a scappare (era ricercato dai nazisti).  Attraversò tutto il Reich, fino ad arrivare a Bruxelles. Da lì si trasferì negli Stati Uniti. Nell'aprile 1941 il Bund lo nomina suo rappresentante presso il Parlamento (il Consiglio nazionale) polacco in esilio a Londra. In realtà, a quel posto era destinato Erlich, ma le sue tracce si sono perse in Urss. La sorte degli ebrei non era, comunque,  tra le priorità delle istituzioni dello Stato polacco.  Zygielbojm, spesso, aveva l'impressione di scontrarsi con una specie di  un muro di gomma. Faceva il possibile per aiutare i suoi compagni rimasti nel Paese, ma i suoi sforzi non erano sufficienti per svegliare la coscienza del mondo. Così, quando ha saputo  della fine dell'insurrezione, l'11 maggio ha chiamato  l'amico Isaac Deutscher, trotzkista e più tardi storico del comunismo. Gli ha detto  che avrebbe l' intenzione di attuare uno sciopero della fame a oltranza davanti alla sede del premier britannico.  Deutscher gli ha spiegato  che la polizia lo avrebbe arrestato e la censura avrebbe  impedito la diffusione della notizia. 

Conclusa la conversazione, Zygielbojm scrive una lettera indirizzata al presidente della Repubblica in esilio, Raczkiewicz, e poi si toglie la vita.

La vicenda viene spesso frettolosamente liquidata con un giro di frase: si è suicidato per protestare contro l'indifferenza del mondo. E invece, vale la pena di leggere quel testo nella sua versione (quasi) integrale, perché dice, ancora oggi, cose sorprendenti ed è una specie di riassunto dell'etos bundista.


“Non posso tacere né posso continuare a vivere mentre periscono i resti del popolo ebraico in Polonia. Di quel popolo sono il rappresentante.
I miei compagni nel ghetto di Varsavia  sono caduti con le armi in pugno nell'estremo gesto di eroismo.
Non mi è stato dato di cadere come loro, assieme a loro. Ma appartengo a loro e alle loro tombe.
Con la mia morte desidero esprimere la più profonda protesta contro l'inerzia con cui il mondo osserva e permette la distruzione del popolo ebraico. So quanto poco vale la vita umana, in particolare oggi. Ma siccome non sono riuscito a farlo in vita, forse con la mia morte contribuirò a svegliare dall'indifferenza coloro che possono e devono agire perché ancora oggi, nell'ultimissimo attimo, si potesse  salvare dall'inevitabile annientamento almeno quel pugno degli  ebrei polacchi che sono ancora vivi.
La mia vita appartiene al popolo ebreo in Polonia, quindi gliela dono. Desidero che quei pochi salvati finora dei milioni delle persone che facevano parte dell'ebraismo polacco, arrivino a vivere il giorno della liberazione assieme alle masse polacche, perché possano respirare in un Paese e in un mondo di libertà, di giustizia, del socialismo. Perché possano essere ricompensati per tutte le loro sofferenze disumane. Credo che sorgerà una simile Polonia e un simile mondo. 
(…)
Dò il mio ultimo saluto  a tutti coloro e a tutto ciò che mi era caro e che ho amato”.

Nell'aprile 2009, arrivò a Varsavia Majus Nowogrodzki, figlio di Emanuel Nowogrodzki, l'ultimo segretario generale del Bund polacco e di Sonia Nowogrodzka, attivista del Partito, leader di  organizzazioni scolastiche e di mutuo soccorso. Edelman (in questo libro) racconta come Sonia venne catturata dai tedeschi nell'estate 1942, e di come lei gli dicesse due giorni prima: “Il proletariato va,  in file per quattro, verso l'Umschlagplatz. Io devo andare con loro. Il mio posto è lì. Se sarò con loro, allora anche negli ultimi momenti nei vagoni bestiame e più tardi, si sentiranno come degli esseri umani”. Papà Emanuel e figlio Majus invece sono sopravvissuti. Come? Nel 1939 si pensava che i tedeschi avrebbero caso mai ucciso i maschi, che le donne sarebbero state risparmiate. Così gli uomini fuggirono da Varsavia. Con l'aiuto del console giapponese a Kaunas in Lituania, i due (e decine di altri bundisti) riuscirono ad attraversare l'Urss, fino ad approdare a New York. Majus, amico d'infanzia di Marek, terminò i suoi studi e diventò uno dei direttori del programma spaziale americano. Dunque Majus, dopo 70 anni di assenza era tornato a Varsavia. Marek non stava bene. Aveva difficoltà ad alzarsi dal letto (ma era lucidissimo, leggeva, parlava di politica e dei sentimenti, fumava le sue sigarette, pretendeva che gli venisse servito il suo whisky). Parlarono a lungo con Majus, in polacco, intercalato qualche volta dallo yiddish, come probabilmente facevano da ragazzi. Marek era di una generosità estrema. Nei confronti di Majus cercava di esprimere tutto l'amore possibile. Tanto che decise di alzarsi (e solo il buon Dio sa quanti sforzi gli è costato il gesto) e di accompagnare l'amico in un giro per le strade di Varsavia. Prendemmo un taxi, di quelli in cui possono entrare più persone (c'erano i famigliari di Marek e quelli di Majus). Marek, seduto davanti, guidava il tassista (stupito, ammirato, in fine  in adorazione). Raccontava a Majus ogni episodio della vita del ghetto, gli indicava i luoghi in cui vivevano i loro cari (anche se le strade dell'ex ghetto sono cambiate, e le case che sorgono in quel quartiere sono state costruite direttamente sulle macerie), spiegava i modi con cui sono morti. Majus faceva domande, annuiva. Nessuna lacrima, pochi segni visibili e di commozione, in quel tour de Varsovie, durato un intero pomeriggio. All'indomani, il 19 aprile, alla manifestazione di commemorazione degli insorti del ghetto (Marek era in cima al corteo in una sedia a rotelle), sono rimasto a fianco di Majus. Abbiamo camminato  nelle ultime file, in silenzio. Davanti alla lapide di Zygielbojm, posta nel 1988, per l'iniziativa di Edelman, mentre il coro intonava l'inno del Bund e cantava il verso sulle stelle luminose che assistono al solenne giuramento di fedeltà e alla promessa di una lotta fino alla morte, Majus, un uomo che ne ha viste tante, e che il giorno prima è riuscito a controllare quella tempesta di emozioni regalatagli di Marek, è scoppiato a piangere.

Il suicidio di Zygielbojm risale a pochi giorni dopo il gesto estremo di  Anielewicz e dei suoi compagni nel bunker di via Mila 18. Per Zygielbojm Edelman ha sempre avuto  venerazione. Ad Anielewicz (che lui stimava, e non ci debbono essere dubbi al riguardo) rimproverava  di aver preferito dare alla propria fine una dimensione simbolica (muore il popolo e assieme a lui i suoi soldati) alla  necessità concreta di continuare a combattere. Un'altra contraddizione della memoria? O forse decisivo era il fatto che Anielewicz era il comandante in  campo, mentre Zygielbojm nella lontana Londra aveva il diritto di cadere nell'estrema disperazione. O forse nel cuore di Marek era prevalsa la fedeltà dimostrata da Zygielbojm al Bund, mentre provava fastidio per la retorica dell'estrema sinistra sionista (“parlavano della Palestina, adoravano l'Urss, gli interessava poco la vita degli ebrei in Polonia”, diceva talvolta), di cui Anielewicz è stato un esponente. E in ogni caso, Edelman non si era mai stancato di ripetere la sua versione dei fatti: i sionisti avrebbero abbandonato i loro compagni nel ghetto, non gli avrebbero mandato né soldi né aiuti. Mentre Zygielbojm, il bundista, ha  restituito la propria vita al popolo cui apparteneva.

“Il ghetto lotta”, va letto, tenendo sempre presente il contesto in cui è stato scritto. La guerra era appena finita. Molti dei compagni erano morti. I leader del Bund uccisi da Stalin, o in esilio nella lontana New York. Il popolo cui faceva riferimento il Partito  non esisteva più: era morto nelle camere a gas, dissolto nei fumi dei crematori. Edelman tuttavia non può sottrarsi al suo ultimo dovere: da comandante e militante disciplinato deve rendere conto di ciò che ha fatto lui e i suoi compagni. Non è il dovere della memoria; è l'urgenza del presente e la visione del futuro a guidare la mano che scrive. O forse, la volontà di riscattare la memoria degli sconfitti, per trasformarla in un progetto dell'avvenire. Il libro, in cui talvolta scrive di se stesso in terza persona, per dare una parvenza di oggettività, nasce dunque come un rapporto da un campo di battaglia. Il suo autore ha allora 26 anni. Ai tempi, non esiste alcun canone della scrittura sulla Shoah, e neanche la parola. Non si sa come raccontare l'inenarrabile. Marek Edelman è uno dei primi a tentarci. Il risultato: questo testo, pur con tutti i suoi errori fattuali (e qualche inesattezza o qualche giudizio affrettato, che nel  corso della sua vita correggerà) è oggi più attuale che mai. Lo è  perché non è un racconto epico delle gesta belliche, ma una storia su come un gruppo di ragazzi e ragazze  abbia tentato di riscattare la dignità e salvare la vita di un'intera città che si voleva condannata a morte e ignominia.

E come di fronte all'estremo (per usare un'espressione di Tzvetan Todorov), i ragazzi di universi reciprocamente avversi gli uni agli altri (i sionisti da un lato, gli antisionisti del Bund dall'altro), abbiano imparato non solo a superare le divergenze riguardanti le loro rispettive visioni del mondo, ma a stringere vere e sincere amicizie. Il  legame tra Marek e la coppia dei suoi due amici più cari, Antek e  Celina; i sionisti (finiti   poi in un kibbutz d'Israele) era della stessa natura di quelli esaltati nei canti del Bund: amore e fedeltà oltre la morte.


L'orgoglio bundista non impedisce tuttavia a Edelman, a guerra terminata, di dichiarare definitivamente conclusa l'esperienza del Partito e del suo universo di riferimento. Nel 1947 si riunisce a Bruxelles, quel che rimane del Bund, nel mondo. Non è una situazione semplice. Il fondamento del pensiero e dell'azione dei bundisti è stato quello che, con un neologismo yiddish veniva chiamato “doykayt”, essere qui. Ecco perché i bundisti non sopportavano la retorica sionista: il loro antisionismo consisteva nel rifiuto di pensare che i problemi degli ebrei polacchi andassero risolti in Palestina. Il punto di riferimento doveva essere invece il quartiere, la città, il Paese, gli operai, le donne, i giovani. Finita la guerra, quei  riferimenti mancavano. C'era però chi insisteva nel non chiudere l'esperienza del Partito. Così, durante quel Congresso a Bruxelles vengono prese una serie di decisioni riguardanti la creazione di nuove istanze bundiste. I dettagli sono materia per specialisti, l'interessante è constatare, quanto Edelman  a quel convegno avesse detto, che il Bund non aveva più  ragione di esistere. Per lui era una storia finita. Cinquant'anni dopo dirà altre cose.


Comincia la seconda vita di Marek Edelman. Non è più un militante. Certo, aiuta coloro tra i suoi compagni che vogliono lasciare la Polonia, in preda ai pogrom (nel 1946 a Kielce vengono assassinati dalla folla 40 ebrei sopravvissuti alla Shoah; si contano a centinaia coloro che vengono uccisi dai militanti dell'estrema destra; Edelman a casa sua ha un vero e proprio arsenale per difendersi, se occorresse) e  dove il regime comunista è diventato sempre più oppresivo. Ma, per il resto, tutto è cambiato. Abita a Lodz. Ha sposato Alina Margolis, una donna che ha conosciuto  nel ghetto. Figlia di un medico illustre, sempre di Lodz, studia medicina. E induce pure Marek a iscriversi a quella facoltà. In breve tempo, i due diventano una coppia di medici: apprezzatissimi nella loro città. Danno vita a due figli: Aleksander e Ania. Racconterà più tardi Aleksander, come a casa loro, quando lui era bambino, i genitori parlassero quasi sempre di casi clinici, dei loro malati, della di medicina, raramente di politica. Due vite dedicate a salvare vite altrui. Quella di Marek, l'ha descritta Hanna Krall nell'ormai classico (è materia di maturità in Polonia) “Arrivare prima del signor Iddio”. Il libro, nella sua versione polacca è uscito nel 1977. Ma prima ancora, la Polonia è teatro di una campagna antisemita lanciata nel 1968 dalle autorità come  risposta alle manifestazioni degli studenti. Molti degli ebrei rimasti nel Paese emigrano. Tra loro, la moglie e i figli di Marek che vanno a vivere in Francia (Alina sarà tra i fondatori dei Medici senza frontiere). Il libro di Krall ha invece un effetto dirompente: fa conoscere al pubblico un eroe praticamente dimenticato.
 
Dimenticato davvero? Intanto, Edelman ha fatto molto per la medicina.
Nell'ambiente non è uno sconosciuto: è un affermato cardiologo che ha fatto alcune importanti scoperte e introdotto cure innovative. E poi, risale probabilmente (questa è la data che stabiliscono Beres e Burnetko) al 1973 il suo incontro con gli uomini e le donne dell'opposizione democratica. L'occasione è una discussione pubblica al Club dell'intellighenzia cattolica (Kik), un gruppo di attivisti cattolici, in cui è stato invitato a raccontare le sue esperienze del ghetto di Varsavia. Poi, quando a metà degli anni Settanta, i militanti dell'opposizione democratica, che si sta organizzando in Polonia, chiedono il suo aiuto, lui non si tira indietro. Usa tutta la sua autorevolezza per partecipare alla lotta per la democrazia. Sarà tra i fondatori del sindacato Solidarnosc nel 1980 e tra i protagonisti del negoziato con il potere comunista che nel 1989 segnerà il cambio del regime. E comunque in tutti gli anni, indipendentemente dal colore del governo, la commemorazione dell'annivversario dell'insurrezione la celebra a modo suo: a mezzogiorno, con un gruppo di amici si presenta al monumento con un pugno di narcisi gialli in  mano.
 
Nella Polonia libera, dopo la caduta del comunismo, assorto  allo status di venerato eroe, usa la memoria di cui è il portatore ai più nobili fini politici. Si batte contro il nuovo clericalismo polacco, sostiene i diritti dei rom, condanna i rigurgiti del  nazionalismo e dell'antisemitismo. È volentieri al centro delle polemiche. Si impegna in difesa della Sarajevo assediata dalle forze serbe. In un'intervista a Micromega (frequenta spesso l'Italia, Edelman) paragona la situazione della città a quella del ghetto di Varsavia. Indirizza una lettera al presidente Clinton perché facesse  qualcosa per arginare l'aggressore serbo. Si mette in viaggio con una colonna di auto che dalla Polonia cerca di raggiungere Sarajevo, carica di aiuti materiali. Sa che la memoria ha un senso non per contemplare le vecchie ferite, ma perché aiuti a scegliere oggi tra il bene e il male; e ad agire.

Nel 2002, quell'uso della memoria suscita lo scandalo dei benpensanti. Il 1 agosto Edelman scrive una lettera indirizzata a “tutti i comandanti delle organizzazioni militari,  paramilitari e partigiane palestinesi”. In realtà chiede che i palestinesi la smettessero  di fare attentati contro i civili. Ma urta molti l'uso della parola partigiani riferito ai palestinesi che combattono contro lo Stato ebraico, e il fatto che Edelman parli da ex comandante di una resistenza  urbana ad altri comandanti, come se fossero paritari. Del resto, i rapporti tra Marek Edelman e lo Stato d'Israele sono sempre stati piuttosto complicati. Aveva degli amici in Israele Edelman. Ha visitato il Paese. Ma di casa era è in Polonia.

Nel 1993, per il 50esimo annivversario della rivolta nel ghetto, da Israele era arrivata una delegazione molto importante. Era una specie di rito: un segnale che d'ora in poi le relazioni tra i due paesi (la Polonia ruppe   i rapporti diplomatici nel 1967) non solo sarebbero stati normali, ma che il rapporto sarebbe stato speciale. In fondo: fino alla seconda guerra mondiale in Polonia hannio vissuto (e per circa 700 anni) oltre tre milioni di ebrei. Qui si è sviluppata una vita fatta anche da riviste, teatri, industria cinematografica, in yiddish. E un grande scrittore Sholem Ash disse “A me la Vistola parla in yiddish”. Era una patria degli ebrei la Polonia. E sono stati gli ebrei polacchi, quelli che hanno pagato il maggior tributo durante la Shoah. Era arrivato dunque a Varsavia, in quell'aprile 1993, il primo ministro Itzhak Rabin. Ma, stando alla testimonianza dell'allora presidente polacco Lech Walesa (sempre nel  libro di Beres e Burnetko) gli israeliani non volevano Edelman alla tribuna d'onore. La stessa cosa me la disse, la mattina del 19, Marek.

Mi sia permessa una testimonianza del tutto personale. Quando Marek mi ha detto che avrebbe comunque preso parte alla manifestazione (assieme alla sua famiglia), gli ho risposto che non ci sarebbe dovuto andare, così come ai tempi del comunismo non partecipava alle cerimonie ufficiali. Ho usato un argomento pericolosissimo: non sarà Israele a dettare cosa sia lecito e permesso in Polonia. Lui è stato inflessibile: vado, e vieni anche tu. La sera, stavamo allineati dietro la transenna, mentre Walesa veniva chiamato a deporre la sua corona di fiori al monumento. Ed ecco il presidente, avvicinarsi a Edelman e a chiamarlo ad accompagnarlo. Marek prese per mano il suo nipotino francese Tomek, e in tre  andarono insieme a rendere l'onore ai compagni caduti. Tre uomini di tre generazioni, in una piazza illuminata dai riflettori, tra il rullo dei tamburi e il silenzio del pubblico.

Il giorno dopo, Edelman incontrò Rabin. Gli disse: guardando i tuoi occhi, capisco che tu sei un uomo di pace, e so che farai un accordo coi palestinesi. Rabin si commosse. Nel settembre 1993, cinque mesi dopo, firmò il trattato di reciproco riconoscimento con Arafat. E ancora, subito dopo la sua morte (e prima dei funerali) , nel 2009, a Varsavia, si presentò Moshe Arens: un politico della destra israeliana, ed ex ministro della Difesa. Disse alla figlia di Edelman, Ania: “Sono venuto a nome dello Stato d'Israele, per rendere omaggio al comandante”. Lei gli rispose: “Troppo tardi”. 

Rimane la questione del Bund. Nel 1997 a New York venne celebrato  il centenario delle fondazione del Partito. Marek ha deciso  di parteciparvi. Fece il discorso, in cui definì, appunto il Bund “la mamma di noi tutti”. Nella sala di un mediocre albergo un centinaio di vecchi signori e signore piangevano. Poi, andammo alla riunione solenne del Coordinamento del Partito. Marek parlò in yiddish. Ero troppo confuso per prendere gli appunti, ma se ricordo bene, disse quanto lui sia sempre stato un figlio del Bund, e quanto il Bund fosse importante per la storia della Polonia e degli ebrei. La sera andammo in casa dei bundisti, suoi compagni. Ci fu una festa. Si discuteva di politica.  Soprattutto si cantava. Negli ultimi anni della sua vita, Marek non diceva più che il Bund era morto. Anzi, qualche volta, stupito delle sue stesse parole  avanzava la  tesi: “Il Bund ha vinto. I nostri sono diventati gli ideali universali: diritti umani, dignità, rispetto degli altri e di tutte le culture, un'Europa unita”. Era ottimista, e per questo cercava la compagnia dei giovani, pensava che nonostante tutto, il mondo del Terzo millenio fosse migliore di quello che lui ha  conosciuto da ragazzo.

Poco prima di lasciarci per sempre Marek ha deciso di pubblicare un  testo curioso: “C'era l'amore nel ghetto” (in Italia è stato edito da Sellerio). Si tratta di una serie di racconti, affidati all'amica Paula Sawicka. Al centro: l'amore. Per decenni, Edelman si era rifiutato di rispondere alle domande riguardanti troppo da vicino la vita sentimentale, ma anche su come era vissuto l'eros e il sesso, in quel luogo di disperazione che era il ghetto di Varsavia. O forse, per una questione di pudore, le domande che gli venivano fatte non erano sufficientemente stimolanti. Fatto sta, che all'età di 89 anni, eccolo porre al centro, proprio la questione dell'amore. E' stato l'amore a tenere in vita e a rendere possibile e sopportabile addirittura l'esistenza degli umani nel ghetto. In quel libro si parla anche del desiderio e del sesso, come momenti cruciali. Ma si cita pure la vicenda di Hendusia Himelfarb, ragazza bellissima e piena di desideri. Ma l'amore non è solo eros. Hendusia era responsabile nel ghetto di un gruppo di bambini orfani. Marek poteva salvarla, le ha detto: “Vieni con noi”. Lei gli rispose: “Non posso lasciare i bambini soli. Senza di me avranno paura, piangeranno”. Salì, con loro sul vagone per  Treblinka. La cosa che stupisce è che quel gesto, Edelman, non lo attribuisce alla fedeltà di Hendusia a un'idea della politica, ma semplicemente lo cataloga come un atto supremo dell'amore. Ma in fondo non parlavano di questo i canti di  lotta bundisti?

Ai  funerali di Edelman, il 9 ottobre 2009, hanno partecipato migliaia di persone. Nella piazza intitolata agli eroi del ghetto, la bara era avvolta nella bandiera rossa con, ricamata in oro, la parola Bund (era un vero autentico vessillo bundista portato da Parigi -  non uno cucito all'uopo). Un coro ha cantato l'inno del Partito. Poi, il corteo, ha percorso le strade di Varsavia, verso il cimitero ebraico. E' stato seppolto a fianco della tomba simbolica dei suoi compagni caduti nell'insurrezione. E come si addice a un comandante della resistenza armata, la compagnia d'onore dell'esercito gi ha reso i saluti militari. Chi vuole, può oggi andare a far vista a un un eroe nazionale della Polonia, al cimitero ebraico di Varsavia. 

Marek intanto continua a vivere nei cuori di chi lo ha amato. La sua è stata una vita ben spesa: ha saputo insegnare a chi voleva impararlo, che la memoria comporta l'oblio; e  ha senso solo se  rivolta al futuro e mai al passato.