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Culture
Vittorio Sgarbi e le peripezie della dea Morgantina

 

Come assessore ai Beni Culturali della Regione Siciliana, Vittorio Sgarbi continua a stupire per le sue iniziative, alcune contestate ed altre accolte con esito positivo. L’ultima riguarda la dea di Morgantina, visibile nel Museo di Aidone e quasi irraggiungibile per i turisti, come si ricava dal calo di presenze rispetto al 2011. La sua proposta di fare un duplicato identico all’originale con sofisticate tecnologie “per farla ammirare a domicilio nelle città d’arte” non ha ricevuto un plauso generale, nonostante che l’intento diverso del critico d’arte sia quello di valorizzare la dea di Morgantina, oltre ad altre sculture femminee, satiri danzanti come quello di Mazara del Vallo, teatri greci e romani, di cui la Sicilia detiene il record dei siti Unesco. Esporre entrambe le copie al museo di Aidone oppure trasferirle per due mesi nel Museo archeologico Salinas di Palermo, scelta come «capitale della Cultura 2018», con tappa al Quirinale non significa per il critico d’arte “sottrarre la dea ad Aidone, ma rafforzarne la potenzialità di comunicazione rispetto al mondo”. Il sindaco di Aidone, Enzo Lacchiana, ha elogiato l’interesse di Sgarbi, ma ha espresso la sua contrarietà ad un trasferimento “che finirebbe per privare il centro della Sicilia di un importante punto di riferimento che attualmente valorizza il museo archeologico di Aidone”. La proposta di Sgarbi - volta anche a nominare una commissione tecnica per stabilirne l’inamovibilità - non è conforme al Decreto Assessoriale 1771/2013.

    La dea di Morgantina presenta una storia singolare per le peripezie della sua storia e per la provenienza da uno scavo clandestino, attuato con ogni probabilità in un santuario nella provincia di Enna.  Scolpita nel V secolo a. C. da un discepolo di Fidia, essa fu trafugata nel sito archeologico omonimo, venduta al Paul Getty Museum di Malibu ad un’asta di Londra per 28 miliardi di lire ed esposta nel 1988. Nel 2001 rientrò in Italia, dopo che il Tribunale di Enna condannò il 5 marzo di quell’anno il ricettatore ticinese Renzo Canavesi a due anni di reclusione e al pagamento di una penale di 40 miliardi di lire. Secondo la sua ricostruzione, Canavesi avrebbe venduto la statua nei primi anni Ottanta per 400 mila dollari alla società londinese Robing Symes, che l’avrebbe rivenduta nel 1986 al museo di Malibù per 10 milioni di dollari. La vicenda ebbe strascichi giudiziari, che si conclusero con la convenzione stipulata a Roma il 25 settembre 2007 tra l’Assessorato Regionale dei Beni Culturali e il Museum americano grazie alla solerte attività delle autorità comunali di Aidone e alla contestualizzazione del reperto archeologico nel territorio originario.

    Le analisi petrografiche, coordinate da Alaimo, hanno dimostrato che il tufo utilizzato per intagliare la statua era proveniente dall’area iblea non lontano da Morgantina. Essa, alta m. 2,24, presenta un corpo molto armonioso con parti nude (viso e braccia), abbellite con marmo bianco dell’isola di Paro: una raffigurazione colorata di cui restano poche tracce di rosso, blu e rosa. Scolpita tra il 425 a. C. e il 400 a.C., la statua presenta uno stile molto diffuso negli anni della guerra del Peloponneso, il cui “effetto bagnato” della veste sul torso mette in risalto i lineamenti del corpo e le ampie pieghe del ricco panneggio, presenti in altre statue coeve come la Nike di Paionios ad Olimpia oppure le Vittorie del Tempio di Atena Nike ad Atene. La testa è solamente abbozzata nella parte posteriore per la copertura probabile di uno strato di stucco su cui era posizionata una parrucca o un copricapo. La statua è lavorata nei minimi particolari anche nelle parte posteriore, dove la ricchezza del panneggio porta alla conclusione che l’opera sia esposta su un piedistallo. La tecnica di lavorazione valorizza la visualità di un corpo e impreziosisce il rendimento di un panneggio, molto diffuso nelle sculture della cultura architettonica greca coeva.

    Nella statua denominata di Morgantina, gli studiosi hanno identificato Demetra o Kore per il culto di cui godeva la dea delle messi, della fertilità femminile e dei campi. Negli eventi storici della Sicilia greca (VI-V secolo a. C.) il culto di Demetra era molto diffuso tra i Dinomenidi, tiranni di Gela e poi di Siracusa, che si proclamavano “ierofanti”, ossia suoi sacerdoti. Esso sopravvive alla diffusione del Cristianesimo, incarnandosi però nel culto della Madonna e dei santi patroni durante le feste primaverili come tributo alle divinità nella raccolta del grano. Il sito archeologico rimane un grande mistero per la presenza della cultura ellenistica nel centro della Sicilia in contrasto con la credenza storica tradizionale, secondo cui le città greche erano ubicate solo sulla costa dell’Isola.

    Su questi aspetti il neo assessore ferrarese è chiamato a pronunciarsi e dar conto dei risultati contenuti nei saggi di Caterina Greco, di Giancarlo Macaluso e Clemente Marconi, pubblicati sulla rivista “Kalòs, arte in Sicilia” (2007, n. 2). La città presentava infatti strade ortogonali, isolai e un sistema fognario evoluto, due teatri, una fontana, altari e tempi dedicati a Demetra e a Kore, similmente ad altre presenti nella piana di Catania secondo le indicazioni di Tito Livio. La restituzione della statua coincise con il 150° anniversario dell’Unità nazionale, durante il quale fu esposta ai visitatori nel Museo archeologico di Aidone. Da quell’anno l’interesse inziale è stato smorzato dal disinteresse regionale, che non hanno provveduto a fornire l’area archeologica delle attrezzature adeguate per i visitatori (casotto/biglietteria, parcheggi, punti ristori, servizi igienici etc., etc.).

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