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Economia
Banche, nel 2020 le grandi fusioni. I bilanci dicono Bper-Mps-Sondrio

Che il risiko bancario europeo ed italiano in particolare sia destinato a riprendere è un’ipotesi che da tempo circola sui mercati. In un focus sul settore creditizio italiano Citigroup in particolare suggerisce di focalizzare l’attenzione sulle banche di media dimensione come Banco Bpm, Ubi Banca e Bper Banca, che stanno affrontando “sfide sulla redditività, per via dei tassi più bassi e di crescenti ostacoli regolatori”. Anche per questo secondo gli esperti fusioni e acquisizioni potrebbero rivelarsi “un’opzione per migliorare la redditività dall’attuale 5% circa di Rote previsto nel 2022 al 7% circa” nel caso si concretizzi uno scenario di fusioni e acquisizioni, appunto.

Lovaglio Creval
 

“Vari report indicano un potenziale consolidamento tra le banche italiane, che crediamo possa accadere a partire dalla metà del 2020”, aggiungono gli esperti secondo cui sono tre i fattori chiave che gli investitori dovrebbero monitorare: i livelli di capitale al momento della fusione, gli obiettivi di Npl ratio e coverage e la redditività futura, che peraltro dipende anche “dal potenziale per la generazione di sinergie” ed è probabilmente il fattore più difficile da valutare.

Nessuna delle varie combinazioni potenziali “può essere esclusa” per Citigroup che in base alle simulazioni effettuate ritiene come nella maggior parte dei casi un’aggregazione offrirebbe un potenziale di rialzo rispetto alle attuali quotazioni di borsa dei singoli titoli. Uniti si vince, o per lo meno si convince il mercato più di quanto non si riesca a farlo finora. Ma quali sono le più probabili combinazioni, se ci si basasse sui numeri attuali (quelli di fine settembre) e non solo su stime future?

Massiah Victor1
 

Un recente studio del centro studi Uilca, sindacato di categoria della Uil, ha analizzato i dati patrimoniali ed economici delle principali banche tricolori, scoprendo che rispetto a fine 2018 mentre i crediti netti complessivi sono aumentati dell’1,7% a 1.292,06 miliardi di euro, i deteriorati netti sono calati del 15,4%, anche grazie alle progressive cartolarizzazioni e svalutazioni, a 49,9 miliardi (il 3,86% del totale, contro il 4,6% di fine 2018). Il derisking è stato dunque consistente, anche se il grado di coverage ormai appare stabilizzato attorno al 53,7% (era al 53,9% a fine 2018), in particolare per un leggero calo delle coperture sulle sofferenze vere e proprie (che ormai pesano l’1,6% netto) mentre è proseguito l’accantonamento a fondi rischi a fronte di inadempienze probabili (coverage del 40,9% contro il 39,5% di fine 2018), che sono ormai la voce più consistente dei crediti deteriorati con circa 23 miliardi di euro di stock (contro i 20,3 miliardi rappresentati da sofferenze), pari al 2,2% netto.

Castagna
 

Tra le banche di media grandezza, che secondo Citigroup potrebbero essere oggetto di una nuova tornata di consolidamento, Mps resta la più problematica con poco meno di 6,9 miliardi di crediti deteriorati netti (il 7,5% del totale che sale al 14,7% a livello lordo). Il suo attivo era inoltre a fine settembre attorno ai 90,5 miliardi di euro, meno di Banco Bpm (105,6 miliardi) e poco più di Ubi Banca (85,2 miliari circa), che però registravano livelli inferiori di crediti deteriorati netti (meno di 6 miliardi per Banco Bpm, meno di 5 miliardi per Ubi Banca).

Decisamente inferiori le dimensioni di Bper Banca (52,5 miliardi di crediti netti, di cui meno di 3,2 miliardi deteriorati); ancora più giù si trovava un terzetto composto da Banca popolare di Sondrio (27,5 miliardi di crediti netti, per 1,7 miliardi deteriorati), Credem (25,3 miliardi di crediti netti, di cui poco più di 500 milioni deteriorati), Creval (19,7 miliardi circa di crediti netti, deteriorati per meno di 800 milioni) e infine Banco Desio (9,6 miliardi di crediti netti, 360 milioni di deteriorati).

vandelli ape
 

Guardando non alle cifre assolute ma ai rapporti percentuali e al grado di coverage, Mps aveva come detto il livello più elevato di crediti deteriorati netti sul totale (7,5%), pur avendo un coverage pari al 52,6%. Sui suoi livelli di coverage e dunque potenziali partner si trovavano Bper Banca (51,1% di coverage, 6,1% di crediti deteriorati netti) e Banca popolare di Sondrio (55,5% coverage, 6,3% crediti deteriorati netti).

Un’eventuale unione a tre darebbe luogo a un istituto con oltre 173 miliardi di crediti netti (il terzo in Italia per tale ammontare) di cui circa 11,7 miliardi deteriorati. Finora il mercato non ha preso troppo in considerazione questa combinazione, seguendo semmai la suggestione di un “super gruppo” composto da Banco Bpm, Ubi Banca, Bper Banca e Mps, che però avrebbe almeno due difetti: coverage non omogenei (si andrebbe dal 40,2% di Banco Bpm al 52,6% di Mps) e uno stock di deteriorati ancora troppo pesante.

Su quasi 334 miliardi di crediti netti (sempre al terzo posto in Italia, ma solo una cinquantina meno di Intesa Sanpaolo) i deteriorati netti sarebbero pari a 21 miliardi (il 6,2%). Se si procederà effettivamente in questa direzione, dunque, i tempi potrebbero essere più lunghi visto che occorrerà prima completare il derisking dei vari istituti.

Difficile anche, almeno stando ai dati di bilancio, ipotizzare un’ulteriore raggruppamento che pure sulla carta potrebbe nascere stando alle dimensioni degli istituti, quello tra Credem, Creval e Banca popolare di Sondrio (essendo Banco Desio al momento più una potenziale preda che un polo aggregante, viste le dimensioni inferiori). La banca emiliana, infatti, è la prima della classe in fatto di qualità del credito con appena il 2,1% di crediti deteriorati netti e un grado di copertura del 53,3%: perché dovrebbe “sporcarsi le mani” con banche che hanno un livello doppio (il Creval) o triplo (Sondrio) dei suoi crediti deteriorati netti?

Salvo, naturalmente, che non venisse fin dall’inizio riconosciuto all’istituto di Lucio Zanon di Valgiurata e Nazzareno Gregori il ruolo di polo aggregante e dunque di guida operativa del raggruppamento. Il che in un mondo che ama quasi esclusivamente i salvataggi di stato e le fusioni “alla pari” non sembra l’ipotesi più plausibile, anche se potrebbe essere la più apprezzata dagli investitori e dunque tale da garantire un maggior potenziale rialzista ai titoli post-aggregazione.

 

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