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Economia
La Borsa? Slegata dall'economia. Far soldi ora è un mestiere per pochi

Per gli amanti delle statistiche, il 12 marzo 2020 è un giorno da segnare con un pennarello indelebile sui calendari. È quello dell’annuncio della presidente della Bce Christine Lagarde che comunicò in mondovisione (con scarso tatto e ancor meno lungimiranza) “non siamo qui per ridurre gli spread, non è quella la missione” dell’Eurotower. Quel giorno la Borsa di Milano implose segnando il peggior calo della sua storia, - 16.92% che faceva seguito ad un’altra seduta di sangue, quella del 9 marzo in cui Piazza Affari bruciò oltre l’11% del suo valore.

Quelle settimane di marzo, convulse e affannose, in cui sembrava che il mondo fosse giunto al capolinea, hanno segnato anche il definitivo distacco della Borsa dalle vicende di economia reale e di politica economica. E le prove sono dappertutto. Prendiamo le banche. Da inizio anno le azioni di Intesa Sanpaolo hanno perso il 30% del loro valore. Da un lato è comprensibile: la crisi economica che sta iniziando solo ora a mostrarsi significa più fallimenti, maggiori incagli, più rischio di nuove sofferenze. Ma Intesa quest’anno ha completato l’acquisizione di Ubi, diventando più forte e più solida. E ha in pancia oltre 85 miliardi di titoli di stato ripartiti tra la divisione bancaria e quella assicurativa.

Ora: dal momento che lo spread è sceso a livelli più bassi dall’inizio dell’anno (in realtà, è da maggio 2018 che non si vedeva un differenziale così risicato tra btp e bund tedeschi), avere tutti quei titoli di stato dovrebbe essere una bella polizza “anti-infortunistica”, no? A quanto pare, no. Analogo discorso può essere applicato a Unicredit e Generali, entrambi decisamente “amichevoli” nei confronti dei btp, che detengono complessivamente per quasi 100 miliardi di euro. Se lo scorso anno una simulazione di Prometeia sanciva che un incremento di 100 punti base di spread avrebbe causato una contrazione dello 0,47% del Cet1 ratio phased-in (cioè, in soldoni, la solidità dell’istituto) come mai oggi che lo spread è ai minimi ed è crollato di oltre 150 punti rispetto a marzo non si assiste a una crescita significativa dei valori azionari delle banche?

Non solo. A Wall Street, com’è naturale, volano i titoli tech, con Amazon, Apple, Facebook e Aplhabet che valgono da soli un quarto dell’intera capitalizzazione dell’indice azionario americano. Ma in un momento di crisi gli investitori, oltre che puntare su titoli arci-sicuri, aspettano l’intervento del governo e della Fed. E allora perché un Trump ancora febbricitante per il Covid ha potuto dichiarare che non ci saranno ulteriori “boost” – nonostante il governatore Powell chiedesse quasi 2mila miliardi di interventi – senza che questo facesse tracollare Wall Street e, a cascata, le Borse continentali?

Altra prova, questa volta di segno opposto: Christine Lagarde ha invitato i governi a un ulteriore pacchetto di stimoli per sospingere una crescita che annaspa causa recrudescenza del Coronavirus. In tempi diversi da quelli che viviamo, anche soltanto un annuncio di questo tipo avrebbe provocato una crescita repentina – uno dei famosi rally – delle Borse europee. Che invece hanno mantenuto inalterata la loro dinamica, come se a parlare non fosse stata la numero uno della Bce ma un soggetto di scarsa importanza. 

Ultimo esempio, tornando ancora alle imprese quotate, di come la Borsa sia ormai un mondo a sé: Tim. In questi mesi l’azienda di telecomunicazioni ha vissuto un periodo particolare. È diventata nodale per la trasformazione digitale delle imprese, per la connessione delle famiglie; ha permesso di far svolgere le lezioni a distanza e di far lavorare le persone in smart working. Se dovesse essere approvato dall’Unione Europea e dall’Antitrust continentale il piano di joint venture con Open Fiber garantirebbe la costituzione del player unico per cablare l’Italia. Notizie positive, insomma. E invece, dall’inizio dell’anno, Tim ha perso poco meno del 37% della sua capitalizzazione. Misteri della borsa.

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