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Economia
La chiusura della miniera di rame a Panama che fa tremare lo sviluppo green
Foto aerea miniere

Rame e rivolte: la chiusura della miniera di Panama agita il mondo green

Transizione ecologica, prosperità e futuro, sembrano termini l’uno conseguenza dell’altro. Ma non sempre è così, se guardiamo l’eco dell' escalation scatenatesi intorno alla miniera di rame Cobre Panamá a Panama, tra appelli di star hollywoodiane e sentenze dei tribunali nazionali. La miniera Cobre Panamá è una mega città che produce 10 miliardi di dollari di ricavi. Da questa si estrae l’1,5% del metallo annuo, fondamentale per la produzione di veicoli elettrici, turbine eoliche e linee di trasmissione di energia di tutto il mondo.

Nel 2013 First Quantum, società mineraria canadese, si porta a casa, tramite un'acquisizione, i titoli per l’estrazione del rame da Cobre Panamá, ma 4 anni dopo la Corte Suprema panamense invalida la legge che regola la concessione originaria. I colloqui tra le parti ripartono, poi si arenano, tra dispute e proteste di massa che crescono giorno per giorno, fino all’approvazione in ottobre di un nuovo accordo accettato dal Congresso panamense, che prevedeva un ritorno annuo minimo di 375 milioni di dollari per il Paese, visto che il precedente patto veniva considerato poco vantaggioso per i locali.

Ma la Corte annulla anche l’ultimo accordo. Gli ambientalisti si dicono vittoriosi con i mercati in subbuglio, sia per gli effetti interni che per quelli internazionali. Panama ora dovrà affrontare un arbitrato internazionale che potrebbe avere effetti nefasti per le casse dello Stato, arrivando a raggiungere fino a 50 miliardi di dollari di perdite. L’accusa, neanche troppo velata, dei legali che perseguono gli interessi della multinazionale canadese, è che la Corte sarebbe stata composta principalmente da incaricati politici che agivano sotto la pressione dell'opinione pubblica.

La miniera, la cui attività estrattiva è iniziata nel 2019, contribuiva significativamente all'economia panamense, rappresentando circa il 3,5% del PIL e il 5% del prodotto interno lordo (GDP), oltre ad essere responsabile del 75% delle esportazioni panamensi, con un impiego diretto di circa 6.600 persone, più tutto l’indotto. Ma suscitando anche una dura opposizione della popolazione, gli ambientalisti hanno motivato le proteste parlando di messa in discussione della sovranità nazionale e di gravi violazioni ambientali, inclusa la distruzione di aree della giungla ricche di biodiversità e il degrado delle risorse idriche locali essenziali.

A inizio novembre due persone sono morte mentre partecipavano alla terza settimana di proteste contro il contratto minerario, bloccando una strada nell'est del Paese. Le autorità non hanno spiegato come fossero morti, ma i rapporti della polizia locale suggeriscono che sono stati colpiti da un autista che tentava di oltrepassare il blocco. Stessa dinamica si è ripetuta il primo di novembre con una persona investita e uccisa.

Lina Vega, presidente della no-profit panamense Fundación Libertad Ciudadana ha dichiarato al Financial Times: “Abbiamo vinto una battaglia che è stata quasi bellissima, ma ad un certo punto dovremo pagare il conto e il conto sarà costoso”.

Panama in questi anni ha ridotto drasticamente il tasso di povertà degli ultimi decenni, grazie a un modello di investimento aperto e favorevole alle imprese straniere. Il suo PIL pro capite è ora superiore a quello di diverse nazioni dell’Europa orientale e della zona caraibica. Ma i problemi arrivano adesso. Lo Stato dovrà immaginare, in tempi rapidi, una forma di sviluppo alternativo all’estrazione mineraria di Cobre Panamá, che non preveda di puntare sulla presenza imponente di aziende multinazionali, ricordandosi però della mannaia dell’arbitrato internazionale che incombe. Non una cosa semplice. Alla chiusura del sito minerario, con l’aumento delle richieste di rame, il costo del metallo è aumentato del 6% nelle ultime cinque settimane, portando il prezzo a 8.550 dollari la tonnellata.

Ora il caso di Panama apre lo scenario ad eventi simili nei Paesi dove vige un pur minimo livello di democrazia e la gente protesta per difendere il territorio. La situazione a Panama evidenzia il difficile equilibrio tra sviluppo economico, diritti ambientali e sovranità nazionale, un tema comune in molte regioni del mondo, dove le risorse naturali sono abbondanti ma la gestione e il controllo delle stesse rimangono controverse. C’è per tanto da chiedersi se queste materie prime, dirimenti per la transizione green, dovranno essere semplicemente acquisite da sistemi totalitari, dove non è possibile protestare, pena la morte, e se questo sia accettabile per le moderne democrazie.

 

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