Economia
Perché abbiamo bisogno di una legge sui crediti di lavoro e sulla disciplina delle retribuzioni
Una normativa chiara sui crediti di lavoro e sulla disciplina delle retribuzioni è indispensabile per ridurre il contenzioso, tutelare i lavoratori, garantire certezza nei rapporti economici e contrastare la diffusione dei contratti collettivi pirata. Il

Lavoro, salari e tutele: la necessità di una disciplina chiara sui crediti retributivi
Quando il Governo Monti modificò l’art. 18, lo fece per portare l’Italia fuori dalle scorie della crisi del 2008. Quel Governo durò assai poco e la norma modificata imboccò subito il mare aperto dell’interpretazione giurisprudenziale, che l’ha portata assai lontano dal punto di partenza. Venne poi Renzi ed il PD intese superare l’art. 18 con l’introduzione delle tutele crescenti. Ma anche quel governo cadde presto, e l’impianto normativo poderoso del Jobs Act venne abbandonato agli interpreti, chiamati a fare da manutentori mentre nuovi legislatori si preoccupavano di approvare diverse norme (su tutte, il decreto “dignità”) senza curarsi di armonizzare il sistema. Nei tribunali è emersa subito la scelleratezza di questo approccio minando la tenuta di orientamenti decennali, primo fra tutti quello in materia di decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dei crediti di lavoro nelle aziende con più di quindici dipendenti, cui la magistratura accordò il beneficio della decorrenza in costanza di rapporto in ragione delle tutele contro i licenziamenti illegittimi.
E così si sono moltiplicati i contenziosi tra aziende e lavoratori, con i Tribunali colmi di domande economiche spesso significative riguardanti l’intero periodo di lavoro, dato che un dipendente ben potrebbe (gli orientamenti, ca va sans dire, non sono univoci) attendere cinque anni dalla fine del rapporto per formulare le sue domande, e nemmeno in sede giudiziale, essendo sufficiente una “messa in mora” per interrompere la decorrenza del termine. Il timore di vedersi notificare cause dal valore consistente anche solo per errori amministrativi in buona fede, ha causato l’ingessamento di alcune organizzazioni, l’adozione di rimedi conciliativi da parte di altre (poi dichiarati nulli pure quelli, sic!), ha influenzato la circolazione di aziende, posta la difficoltà di un acquirente di avere certezza sull’assenza di rischi pregressi e le resistenze dei venditori ad offrire garanzie sine die, risolvendosi il tutto in una grande spinta alla precarietà ed al peggioramento dell’ecosistema del lavoro, il cui prezzo lo pagano sempre i lavoratori.
Ma questa incertezza potrebbe finire, perché con un emendamento al Decreto Ilva si vuol disciplinare la decorrenza, in costanza di rapporto, del termine prescrizionale di cinque anni per i crediti di lavoro, nelle imprese con più di quindici dipendenti che beneficiano di solide tutele contro il licenziamento, così da non aver nessun timore sulle sorti del rapporto nel caso di formulazione di rivendicazioni economiche. Si vuol addirittura far di meglio, a beneficio della certezza del diritto e della massima correttezza dei rapporti: introdurre un termine decadenziale di sei mesi per far valere in giudizio un credito, ma solo se contestato formalmente, così da evitare il protrarsi di situazioni di incertezza in malafede, posto che un credito non noto e non rivendicato non subisce alcuna decadenza.
Stupiscono allora le prime reazioni di alcuni esponenti politici e sindacali: paiono essere vittime della perenne suggestione, molto populista, che la reintegrazione sia la forma di tutela perfetta senza minimamente considerare che sono 13 anni che il legislatore la pensa diversamente, e sono pure tecnicamente sbagliate, tanto è vero che le tesi sollevate non godono di alcun sostegno normativo.
L’emendamento interviene anche in ambito retributivo, stabilendo che il salario concordato tra le parti, se in applicazione di un contratto collettivo rappresentativo, si presume proporzionato e sufficiente ai sensi dell’art. 36 della Costituzione. In pratica, si mettono alla berlina i contratti collettivi non rappresentativi, quelli cosiddetti pirata e anticoncorrenziali, ai quali il sistema riconosce una specie di presunzione di illegalità immanente. Il cerchio si chiude con la previsione di un meccanismo sanzionatorio fortemente penalizzante per la contrattazione non rappresentativa: il Giudice che ritiene inadeguata la retribuzione in ottemperanza di un valido contratto collettivo, può condannare il datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive per il pregresso per un periodo limitato, cioè dall’invio dell’atto interruttivo della prescrizione o dalla data del deposito del ricorso introduttivo del giudizio, limiti che non operano per coloro che applicano contratti non rappresentativi.
Piaccia o no, l’introduzione di una simile normativa offre oggettivamente un sostegno potente alla contrattazione di qualità ed è uno stimolo all’azione sindacale e al costante rinnovo dei contratti, cui si attribuisce nuovamente il ruolo ultradecennale di massima autorità salariale, dando corpo alle tesi storiche della giurisprudenza del lavoro.
*Avvocato giuslavorista, Fondatore NIUS Studio Legale