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Esteri
Gaza, la risoluzione Onu? Israele se ne frega. E i rifugiati palestinesi...
Guerra Gaza

Gaza, passa la risoluzione Onu ma il problema rifugiati palestinesi resta

La decisione storica dell'Onu, la risoluzione per il cessate il fuoco immediato a Gaza che ha visto gli Usa astenersi dal voto dopo mesi di veti, ha dato una scrollata gli equilibri politici internazionali e all’apparenza sembra aver gettato le basi per un cambiamento di rotta e di condotta. Tuttavia, c’è ben poco di che sperare: il governo di Israele ha fatto subito sapere, con stizza e risentimento, che non ha nessuna intenzione di rispettarla e che continuerà la guerra, a costo di farlo da solo.

Quindi bene per il “Cessate il fuoco”, arrivato però dopo sei mesi di massacri, più di 100mila morti – i 70mila feriti sono da considerarsi per la maggior parte deceduti - e 2milioni e mezzo di palestinesi costretti a vagare nella Striscia braccati come topi. Male che la risoluzione non sia vincolante e che non preveda nessuna garanzia per la sua concreta attuazione. Tant'è che immediatamente dopo la storica decisione, l'esercito israeliano ha ripreso i bombardamenti, come se nulla fosse, massacrando qualche altra dozzina di innocenti, metà dei quali bambini.

C'è poi un secondo problema: Israele permetterà ai palestinesi di ritornare nel nord della Striscia di Gaza, da cui sono stati espulsi - ma sarebbe più appropriato scrivere deportati - all’inizio della guerra, o li sfollerà permanentemente da lì, mantenendo il controllo di tutto il territorio, e attuando di fatto l'ennesimo esproprio illegale? Il dubbio è lecito e la risposta non così scontata. Secondo molti osservatori, la fame e la sete alla quale Israele da mesi sottopone i palestinesi fa parte di una precisa strategia per ridurre allo stremo la popolazione e costringere Hamas a liberare gli ostaggi e arrendersi.

Avendo io buona memoria, e ricordando bene le dichiarazioni di Netanyahu sugli ostaggi, sul cui rilascio a febbraio il primo ministro si espresse affermando che "non era la priorità" e che non li avrebbero liberati "a tutti i costi", sono più propensa a credere che ci sia un disegno preciso che assomiglia molto alla pulizia etnica, funzionale all’annessione della Striscia.

La reazione scomposta e fintamente sorpresa di Netanyahu e del suo governo - da mesi gli Usa lo mettevano in guardia -, unita alla furia con la quale Israele continua a bombardare una terra dove in piedi non è rimasto un solo edificio e dove tutto è ricoperto da uno spesso strato di polvere e morte, farebbero propendere per la mia seconda ipotesi. Ridurre due milioni di persone a mangiare erba per sopravvivere, affamare un intero popolo, è qualcosa che non abbiamo mai visto in tutta la storia dell’umanità. La crisi di Gaza mette a nudo tensioni che prima erano celate al grande pubblico, mentre adesso sono sotto gli occhi di tutti. E mentre Gaza da prigione a cielo aperto è diventata un cimitero diffuso, in Cisgiordania, ogni giorno, un pezzetto di terra viene sottratto ai palestinesi con la forza, con la violenza, con le armi.

Dall’inizio del conflitto sono stati realizzati 10 nuovi insediamenti. E non più tardi di una settimana fa il Governo di Netanyahu ha dato il via libera per la realizzazione di uno nuovo complesso che coprirà una superficie di 800 ettari. Proprietà terriere rubate ai palestinesi che vengono classificate come “terreni demaniali”, definizione adottata da Israele per legittimare l’acquisizione illegale di territori da destinare ai coloni.

Quel che è certo è che mai come oggi Israele è stato così emarginato e solo. La mancata osservazione della risoluzione aggraverebbe poi ulteriormente la sua posizione alla Corte Internazionale di Giustizia dell'Aia, avvallando di fatto, e in modo incontrovertibile, l'accusa di genocidio mossagli dal Sud Africa, al quale nel frattempo si sono uniti molte altre nazioni, tra cui i 57 Paesi dell’Organizzazione di Cooperazione Islamica, Turchia, Bolivia, Pakistan. L’appello del Sudafrica, che ha peraltro condannato l’attacco di Hamas, va ben oltre una procedura legale. È la messa in discussione dell’ordine internazionale instaurato dal più potente alleato di Israele, gli Stati Uniti, che ieri con la sua astensione ha lanciato un avvertimento di peso al suo protetto. Che sia stato fatto per salvare l’immagine degli Stati Uniti di fronte al crescente sconcerto dell’opinione pubblica internazionale, e/o come manovra elettorale per garantire più voti a Biden in vista delle prossime elezioni poco conta a questo punto del dramma.

Non si può fare a meno di notare però che negli USA stampa e i quotidiani non riportano in prima pagina la storica decisione dell’ONU, quasi come se un ordine di scuderia avesse imposto di far scivolare la notizia fra quelle di secondo piano. Il che vorrebbe dire, e non sarebbe la prima volta, che con una mano si sono astenuti, ma con l’altra continuano a tenere la palla, quella delle forniture di armi e munizioni.

I prossimi giorni saranno cruciali per capire dove Bibi Netanyahu ha intenzione di andare: riportare a casa gli ostaggi israeliani e consentire il ritorno dei residenti nel nord di Gaza – anche al prezzo di una spaccatura nella sua coalizione di governo – o aggrapparsi alla sua poltrona, aderire all’estrema destra e dichiarare la creazione del “Problema rifugiati palestinesi 2.0”. Grazie al mondo interconnesso e perennemente on line nel quale viviamo, questa volta nessuno potrà dire che non sapeva. Nessuno potrà fingere di non aver avuto contezza del dramma in corso, oltre la cortina del muro di Gaza dove Israele ha vietato l’ingresso a tutti i giornalisti internazionali.La zona di interesse è qui, ora. A Gaza.Un altro sterminio. La stessa polvere.

#StopBombingGaza #stopwar #STOPtheGENOCIDE #PeaceNotWar #BringThemHomeNow #Israele #Palestina






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