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Esteri
Usa Cina, fake deal più che accordo. La (non solo trade) war andrà avanti
Donald Trump e Xi Jinping (foto Lapresse)

Riflettori accesi. I due grandi nemici si fanno fotografare insieme per la firma della cosiddetta "fase uno" dell'accordo commerciale. Ma quella che va in scena a Washington, più che la celebrazione della pace, è la certificazione di una rivalità che proseguirà come e più di prima nei prossimi anni. Come già accaduto in precedenza, tra Stati Uniti e Cina le piccole tregue si alternano ai grandi scontri. Donald Trump si farà riprendere sorridente davanti ai 200 invitati alla East Room della Casa Bianca ma, a livello strategico, nei corridoi di Washington e di Pechino la sfida continuerà come sempre.

La "fase uno" in sé contiene elementi modesti se considerati nell'interezza della posta in palio. Pechino si impegna ad aumentare l'import di prodotti made in Usa per almeno 200 miliardi di dollari nei prossimi due anni, mentre Washington dimezza i dazi su 110 miliardi di esportazioni cinesi, passando dal 15 al 7,5 per cento. Il tutto mentre nel frattempo restano in vigore tariffe per un valore di 370 miliardi di dollari. La firma della "fase uno" è stata preceduta da un'altra mossa distensiva, quantomeno a livello simbolico, con il Tesoro americano che ha cancellato la Cina dalla lista dei paesi accusati di manipolare la valuta, con l'immediato effetto che lo yuan è passato ai massimi da agosto.

Al di là delle photo opportunities e delle immagini scenografiche, però, la realtà è molto diversa. La realtà dice che la "fase uno" (la cui bozza è passata dalle 150 pagine immaginate a maggio 2018 alle 86 odierne) contiene pochi, pochissimi fatti e molte promesse. Promesse che al prossimo gelo o incidente diplomatico si farà in fretta a dimenticare da entrambe le parti. Basteranno mancati progressi sulla "fase due", che ancora non si sa quando prenderà il via, o scontri su temi come Hong Kong e Xinjiang (come già accaduto negli scorsi mesi), per tornare al punto di partenza. 

Non bisogna dimenticare che il nuovo round di tariffe statunitensi sulle merci cinesi non è stato cancellato ma è stato solamente rinviato e che le stesse tariffe sono state solamente dimezzate. Come dire: "ti punisco, ma solo a metà. Per la punizione completa magari ci pensiamo non questa settimana, ma settimana prossima". Non proprio un accordo di sistema. Sembra semmai un'opportunità, per entrambe le amministrazioni, per sventolare un risultato di fronte al proprio paese, grazie alla prevedibile vaghezza dei punti del testo, che apriranno a diverse possibilità di interpretazione. Ma è comunque un fatto concreto da presentare agli  elettori. Tema caro a Trump, in particolare nell'anno che precede le elezioni per la Casa Bianca, ma anche allo stesso Xi Jinping

Proprio per questo, la vaghezza dei contenuti della "fase uno" fa sì che entrambe le parti possano "riempirla" con i contenuti più congeniali per farla passare come un proprio successo e una parziale resa dell'avversario. La realtà è che nessuno dei due contendenti sembra voglia mollare un centimetro. I "falchi", da una parte e dall'altra, hanno al momento gioco facile. E non si tratta solo di un confronto commerciale, dimensione sulla quale comunque già le prospettive di un vero e proprio accordo sembrano molto lontane. Le richieste americane sono infatti quelle di un sostanziale cambio di regime economico di Pechino. Richiesta che, ovviamente, la controparte non prende e non prenderà mai in considerazione.

La sfera tecnologica è uno dei focus principali della competizione. L'offensiva di Washington su Huawei non accenna a placarsi, anzi. Le richieste ai partner di estromettere il colosso di Shenzhen dalla corsa al 5G si fanno sempre più pressanti, anche se al momento hanno riscosso poco successo. E nel mirino sono entrati anche giganti cinesi, per ultimo TikTok. Prevedibile che la traiettoria prosegua nello stesso modo, con Pechino che continua sulla strada dell'autosufficienza tecnologica nell'ambito del progetto Made in China 2025 e gli Usa che provano a fare terra bruciata intorno ai colossi cinesi.

La sfida tecnologica è una partita che non coinvolge solo la sfera dell'innovazione, ma anche quella militare e geopolitica. Nel mondo di oggi e ancor di più nel mondo di domani, l'equazione tra leadership tecnologica e leadership geopolitica si farà sempre più evidente. Ecco perché Washington prova a contenere l'ascesa tech di Pechino, sperando di contenerne anche quella e diplomatica (per esempio in ambito Belt and Road Initiative) e strategica. Nel marzo 2019, per dirne una, il Committee on the Present Danger (un'unità di crisi fondata negli anni Cinquanta per far fronte ai sovietici durante la guerra fredda) è tornato in funzione. Con un focus sulla Cina. Con la fine dei clic delle macchine fotografiche, la competizione continuerà, a varie latitudini.

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