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Con il silenzio sul caso Elkann si sgretola il mito di Repubblica
John Elkann

Caso Elkann, il silenzio di Repubblica sgretola il mito della testata "affilata" che piace alla borghesia

Nell’intricata vicenda dell’eredità dell’Avvocato Agnelli ci sono diversi profili da tragedia greca e moderna. C’è la mamma Margherita, novella Medea, pronta a sacrificare i suoi figli che – a suo dire – l’avrebbero derubata di una parte cospicua di ciò che le sarebbe spettato tra quadri, oggetti di valore e altri preziosi. C’è John Elkann, che, come Macbeth, miete vittime tra i parenti silurando il cugino Andrea dalla presidenza della Juve e della holding di famiglia. E poi c’è un’altra tragedia, meno evidente ma non per questo meno grave: quella di Repubblica, il diamante (ancorché appannato) della galassia Exor che sta perdendo lettori, autorevolezza e, soprattutto, senso.

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Il crollo delle copie vendute anno su anno, ben oltre la media di un settore comunque in difficoltà, è poca cosa se paragonata alla gestione dell’informazione. Se il fascicolo torinese che indaga su Marella, i nipoti, Margherita e l’eredità dell’Avvocato dovesse rivelarsi una bufala (o dovesse venire ridimensionato) non ci sarebbero grandi rilievi da fare tranne uno: com’è possibile che Repubblica, paladina della libertà di stampa, punto di riferimento della borghesia illuminata e caposaldo delle battaglie contro Silvio Berlusconi e il suo conflitto d’interessi, si sia ridotta a dare le notizie copiate dall’agenzia di stampa, senza approfondire e raccontare? Com’è pensabile che una notizia come quella che John Elkann è indagato finisca nella quart’ultima riga di un pezzo anodino, per di più condiviso con La Stampa, altra testata del gruppo?

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E ancora: perché trova ampio spazio la difesa degli Elkann, ma non l’accusa di mamma Margherita? Tutti quesiti che fanno dubitare, una volta di più, sulla capacità di riflettere sui dettagli dell’attualità da parte di una testata nata con uno spirito battagliero che ora è stato sostituito da un timido miagolio. A partire dal suo fondatore, quell’Eugenio Scalfari che per quasi un trentennio ne è stato il padre-padrone, ma anche il garante di un orientamento preciso, alto senza mai scendere a compromessi con i potenti di turno. Uno “spirto guerrier” che è stato croce e delizia di due generazioni di giornalisti. Il mito ora traballa e crollerebbe del tutto se l’inchiesta di Torino dovesse tramutarsi in qualcosa di concreto, facendo saltare la credibilità italiana di John Elkann.

Che cosa succederebbe allora a Gedi e al suo diamante Repubblica? Probabilmente verrebbe ceduta a qualche compratore, perché il blasone resta anche se appannato. Ma chi? Su Affari avevamo proposto la famiglia Ferrero, ma è arrivata una secca smentita. Può essere Danilo Iervolino, che già aveva comprato l’Espresso dalla famiglia Elkann? Difficile per non dire impossibile. Gli unici ad avere la potenza di fuoco sarebbero Urbano Cairo – che però avrebbe poi un problema di concentrazione perché si ritroverebbe proprietario dei primi tre quotidiani per copie vendute – o la famiglia Angelucci. Ma davvero sarebbe percorribile una Repubblica riposizionata a destra, magari guidata da Alessandro Sallusti o Mario Sechi? Impossibile. O, almeno, estremamente improbabile. Certo, il declino iniziato dopo che Carlo De Bendetti cedette il controllo della società editrice ai figli è impossibile da nascondere. E il trend è ulteriormente peggiorato con il passaggio agli Agnelli.

Ma è chiaro che in questo momento viene meno quell’opera di ingegno di Scalfari che ebbe la ferocia di cavalcare – per superare il Corriere della Sera – anche la spinosissima vicenda della loggia P2. Nel 1981 il direttore Franco Di Bella venne travolto dallo scandalo della massoneria, quando emerse chiaramente che l’intera Rcs era permeata di piduisti e che la proprietà non era più nelle mani di Angelo Rizzoli, ma di Licio Gelli e di Roberto Calvi. Quando il caso deflagrò del tutto, dopo la scoperta dei fascicoli con gli iscritti alla loggia nel marzo di quell'anno, l'azienda venne sostanzialmente commissariata dalla Procura di Milano che affidò la gestione dell'azienda a Libero Riccardelli. Magistrato vicino al Pci, senatore nelle fila delle Sinistra indipendente - che era il modo con cui all'epoca si portavano uomini dello Stato in Senato senza poterli tacciare di comunismo - già noto agli appassionati di cronaca perché era il pm di turno quando venne assassinato il commissario Luigi Calabresi il 17 maggio 1972. Al posto di Di Bella Riccardelli chiamò Alberto Cavallari. E fu in quelle settimane convulse che si consumò una pratica umiliante per il Corrierone: le vicende della P2 non vennero raccontate con cronisti e firme di peso, ma attraverso agenzie di stampa Ansa che venivano calate in pagina. 

Scalfari cavalcò quel momento e conquistò copie su copie, arrivando a sfiorare la supremazia del Corriere che durava dal 1906. Il “barba”, come lo chiamavano gli amici, fece detonare con il tritolo inchieste, racconti, ritratti. E consegnò Repubblica alla storia, rendendola la testata di riferimento per una borghesia in cerca d’autore dopo la deflagrazione dello scandalo P2. Oggi le carte si sono rovesciate: il Corriere racconta – senza però maramaldeggiare – le vicende degli Agnelli. Come ha ricordato Ruben Razzante, l'articolo non è finito in prima, ma è stato posizionato a pagina 17, con  un'analisi dettagliata delle implicazioni dell'indagine. 

Mentre il quotidiano fondato da Scalfari arretra. Per citare De Andrè, la trasformazione è plastica: prima “Si costerna, s'indigna, s'impegna. Poi getta la spugna con gran dignità”. Un proverbio antico dice che è bene legare l’asino dove vuole il padrone. Tradotto: chi ha il potere decide l’indirizzo da dare alle cose. Il detto, però, ha un seguito che è meno conosciuto: “E se si rompe il collo, suo danno”. Il che vuol dire che se poi la direzione indicata non porta buoni risultati, la colpa è solo del padrone. Una Repubblica forte e vigorosa è una garanzia per tutto il mondo del giornalismo. Azzopparla sarebbe un crimine. 
 






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