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Politica
M5S, si salva solo Di Battista. Il secondo mandato affossa i big

Riflettori puntati su Bruxelles. L’esito della due giorni del Consiglio europeo, infatti, può dire molto sulle sorti del governo, ma anche sulla tenuta dello stesso Movimento cinque stelle. Il Mes può sempre rivelarsi una nuova Tav per i pentastellati. Soltanto che, all’epoca del Conte uno, caduto l’esecutivo, la legislatura aveva appena un anno di vita alle spalle ed è stato facile salvarla. Stavolta, il quadro è più complesso. Anche perché in casa M5s le fibrillazioni sono ormai alle stelle. Le percentuali raggiunte alle politiche, almeno a guardare i sondaggi, sono sempre più un miraggio. L’appeal dello stesso Di Maio è calato. L’unica stella che brilla nel firmamento grillino è quella di Giuseppe Conte. Che, però, non è un pentastellato a tutti gli effetti. Come gli ha ricordato proprio Alessandro Di Battista un mesetto fa: “Si deve iscrivere al M5s e partecipare al prossimo congresso". Ma proprio questo è il punto: e se Conte dovesse decidere di fare un passo in questa direzione? L’ipotesi è sul tavolo (forse più di quella di farsi un partito tutto suo). Ed è anche un ulteriore motivo di divisione all’interno del Movimento, spaccato tra contiani e non. In più, i Cinque stelle, al momento sotto la reggenza di Vito Crimi, sono già da tempo proiettati all’appuntamento d’autunno con gli Stati generali. Una sorta di nuova costituente che, oltre a dare i natali a un nuovo capo politico e a fissare le sfide programmatiche future, dovrà pronunciarsi pure sulle regole interne.

Deroga al vincolo del secondo mandato oppure no? Il vero nodo da sciogliere è tutto qui. Anche perché se la regola dello statuto fondativo dovesse rimanere in vigore, quasi tutta la vecchia guardia pentastellata si ritroverebbe fuori dai giochi politici. Tranne Alessandro Di Battista, fermo a un solo mandato, infatti, tutti gli altri sarebbero a spasso.  Si spiega così il nervosismo, che poi si traduce in attivismo, per esempio, dell’ex numero uno Luigi Di Maio. Il giovane leader di Pomigliano D’arco, classe ’86, ha bruciato tutte le tappe. E così, da steward allo Stadio San Paolo di Napoli, nel giro di sette anni, è stato il più giovane vicepresidente della Camera, capo politico del Movimento, vicepremier e pluri-ministro (al Mise e al Lavoro) nel Conte uno e titolare della Farnesina in questo governo. Ecco perché non è remota la possibilità che si stia spianando la strada per una futura premiership. Tesse relazioni, e in questo la Farnesina si sta rivelando una buona scuola, ma soprattutto stabilisce rapporti con i big di partiti avversari. Senza dubbio una premiership fa più gola rispetto all’opzione della leadership del Movimento. Pure questa è, infatti, un’ipotesi in campo, ma molto più faticosa (Di Maio ha provato sulla sua pelle cosa significhi tenere insieme un Movimento così eterogeneo), oltre che irta di ostacoli: il titolare del Maeci di rivali interni, dichiarati e non, se n’è fatti parecchi in questi anni. Per colpa soprattutto dell’accentramento decisionale nelle sue mani che, per un Movimento nato col mito dell’uno vale uno, non è mai stato digerito fino in fondo. Certo, Di Maio potrebbe sempre accarezzare l’dea di battezzare un partito suo, ma abituato com’è ad occupare il centro della scena politica, un partitino stile “Azione” di Calenda sarebbe un “downgrade” troppo pesante da digerire. E se si reinventasse? In fondo, anche un politico navigato - oltre che suo predecessore alla Farnesina - come Angelino Alfano ci è riuscito. Tra l’altro, pure l’ex delfino di Berlusconi aveva intrapreso giovanissimo la sua carriera politica: ad appena 26 anni era già deputato regionale in Sicilia con Forza Italia. Ma Alfano è un avvocato. Di Maio, seppure iscritto alla facoltà di Ingegneria all'Università Federico II di Napoli, non ha mai portato a termine gli studi. Galeotto, è il caso di dire, proprio il Movimento a cui si avvicinò durante gli studi.

Ma non ci sono solo i tormenti del giovane Gigino, che si arrovella, giustamente, sul suo futuro. Di Maio è in buona compagnia. La sabbia nella clessidra scorre sempre più velocemente davanti agli occhi di altri big pentastellati quali Paola Taverna, Roberto Fico, Roberta Lombardi, Vito Crimi. Per tacere dei ministri Alfonso Bonafede, Stefano Patuanelli e Fabiana Dadone. Anche per l’ex titolare del Mit Danilo Toninelli e per l’ex ministro per il Sud Barbara Lezzi il tempo stringe. E che dire di Carla Ruocco? La deputata grillina, nastro nascente nel 2014, dopo l’esperienza del direttorio, è però finita nelle retrovie. Palazzo Chigi, infatti, non l’ha neanche sfiorato. Neppure con un ruolo di sottogoverno. A lei solo il premio di consolazione della presidenza della commissione Finanze alla Camera e ora della Commissione d’inchiesta sulle banche. Di buono per Ruocco c’è un fatto, tuttavia: non ha perso dimestichezza con i conti. Ecco perché tornare al suo precedente mestiere di funzionario dell’Agenzia delle entrate non sarebbe poi così traumatico.

Chi scalpita di più in casa M5s, però, è senza dubbio Paola Taverna. Classe ‘69, romana della borgata del Quarticciolo, ne ha fatta di strada. Per 13 anni, a partire dal 2000, ha lavorato presso la segreteria di un poliambulatorio di analisi cliniche. Poi nel 2013 si è candidata alle parlamentarie M5s. Da lì un percorso in discesa fino a diventare vicepresidente del Senato. Più arduo sarà stato abbandonare lo stile d’esordio, tutto urla e turpiloquio. Ma anche in questo ha fatto progressi. Potrebbe candidarsi ora alla guida del Movimento. Se i due mandati saranno uno Stige inguadabile, occuparsi del M5s sarebbe una buona exit strategy per lei. In più, Taverna, durante questi anni di impegno politico, ha anche trovato il tempo per studiare e laurearsi. Nel 2019, all’età di 50 anni, infatti, ha conseguito il titolo in Scienze politiche. Su tale fronte, c’è da dire, è un passo avanti rispetto a Di Maio, trinceratosi dietro l’alibi del suo ruolo di vicepresidente a Montecitorio: “Non avrei mai approfittato del ruolo per andare a fare gli esami”, diceva.

Chi, invece, una laurea l’aveva già in tasca prima di approdare nella Capitale è Roberto Fico. Napoletano, nato nel 1974, si è laureato nel 2001 all'Università di Trieste in Scienze della comunicazione. Nel 2005 ha fondato il primo meetup "Amici di Beppe Grillo" nel capoluogo campano. Da lì, poi, ha spiccato il volo, ricoprendo il ruolo di presidente della commissione di Vigilanza Rai nella precedente legislatura e in questa occupando lo scranno che fu di Pertini, Ingrao e Iotti, per citarne alcuni. Anche la terza carica dello Stato dovrà interrogarsi sulle sue sorti future. La tagliola del secondo mandato, infatti, sta per scattare. Guardare ai suoi più recenti predecessori, di certo, non lo aiuta. Per un ortodosso come Fico, legato al M5s delle origini e cioè a un Movimento che aveva fatto professione di fede nel mandato a termine e ripudiava i professionisti della politica, non possono essere certo d’esempio Laura Boldrini o Pier Ferdinando Casini, rieletti e accomodatisi in Parlamento. Una caduta senza rete si prefigura poi per l’ex ministro ai Trasporti Danilo Toninelli. Nel suo curriculum vanta una laurea in Giurisprudenza, ma Toninelli è stato anche ufficiale di complemento dell’Arma per un breve periodo. Prima di varcare la soglia dei Palazzi era impiegato in una compagnia assicurativa. Dove si ricollocherà? Un bel busillis sul quale, non c’è dubbio, dovrà “concentrarsi”, tanto per rispolverare un tormentone di “Propaganda live”. Un problema che si porrà pure per l’ex ministro per il Sud Barbara Lezzi. Leccese, con un diploma per periti aziendali e corrispondenti in lingue estere, prima di approdare in Senato nel 2013, lavorava come impiegata di terzo livello in un’azienda del settore commercio. Rieletta nel 2018 è stata anche nominata ministro nel governo Conte 1. Ma è rimasta a bocca asciutta nell’esecutivo giallorosso. E così pure i riflettori della ribalta mediatica, per lei che è stata sin dal suo arrivo nella Capitale un volto pop del M5s, si sono via via spenti. Anche se, bisogna riconoscerlo, la pasionaria pugliese è ancora resiliente e non ha perso la sua verve battagliera. Una possibilità per Lezzi ci sarebbe:  vista la sua vicinanza a Di Battista, infatti, può sempre sperare in un ritorno sulla scena politica dell’ex deputato romano, per ritagliarsi almeno un ruolo nel futuro Movimento.

Ma la sfilza di futuri disoccupati a cinque stelle non finisce qui. Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli è a fine corsa, dal momento che dal 2001 al 2016 è stato consigliere comunale a Trieste. Potrebbe sempre tornare, però, a svolgere la sua vecchia professione e cioè quella di ingegnere edile. Provengono dal mondo delle professioni, e più precisamente dall’avvocatura, anche Alfonso Bonafede, attuale ministro della Giustizia, e Fabiana Dadone, titolare del dicastero di Palazzo Vidoni. Il guardasigilli, male che vada, ha comunque uno studio avviato a Firenze cui tornare, lo “studio legale Bonafede & partners”. Nella home del sito, tra l’altro, è scritto in evidenza: “L’Avv. Alfonso Bonafede risulta attualmente sospeso dall’esercizio della professione ex art. 20, 1 co., l. 247/2012, per assunzione di incarico istituzionale dal 01.06.2018”, mentre nella sezione staff, alla voce “Alfonso Bonafede”, si legge checoltiva costantemente la sua attività di studio e di aggiornamento professionale”. Quindi, se il Casaleggio pensiero sui due mandati dovesse prevalere, la via d’uscita per l’attuale capo delegazione M5s al governo sarebbe pronta. Più difficile, invece, per il ministro della Pa, Fabiana Dadone. La madrina dello smart working, infatti, è sì avvocato, ma non ha fatto in tempo a concludere la pratica e, quindi, ad abilitarsi alla professione. Lo spiegava Dadone stessa in un’intervista al Corriere Sette del 2019: “«Sono praticante in uno studio legale di Ceva, cittadina del cuneese. Mi manca l’esame per l’abilitazione da avvocato. Ci sono andata vicino, ma nel 2013 sono entrata in Parlamento e non ho avuto tempo di occuparmi di altro”. Dalla sua, c’è da dire, avrebbe ancora i dati anagrafici, visto che ha 36 anni. Molto più complesso per altri suoi colleghi pentastellati che dalla ribalta politica in giovane età si potrebbero ritrovare a dover ricominciare, magari lontano dai riflettori, in età matura.

Una cosa è certa, se Conte dovesse alla fine ritrovarsi a guidare il Movimento e se la deroga al vincolo del doppio mandato non dovesse passare, avrebbe davanti a sé praterie. “Ne resterà uno solo” come in “Highlander” e cioè Alessandro Di Battista. Il descamisado romano, in effetti, è tra i pochi a poter dormire tranquillo, avendo ancora la fiche del secondo mandato da giocarsi. A ingrossare la pattuglia dei big in uscita c’è anche l’ex deputata e attuale consigliera M5s in Regione Lazio, Roberta Lombardi. La protagonista, insieme a Vito crimi dell’indimenticabile streaming con Pier Luigi Bersani, non sembra però affatto turbata dalla fine del secondo mandato. Anzi, è l’unica ad aver fatto capire esplicitamente di essere contraria a deroghe o regole ad personam. E’ vero che a sollevare il casus belli è stato nei mesi scorsi l’attuale capo politico del Movimento Crimi, aprendo all’ipotesi di una deroga per il sindaco di Roma Virginia Raggi, non proprio una collega amata da Lombardi. Ma non sono stati, di certo, i rapporti personali a pesare sul giudizio secco dell’ex parlamentare M5s. La sua è una convinzione profonda. Per lei vale quanto sosteneva Gian Roberto Casaleggio, secondo cui “ogni volta che deroghi ad una regola, praticamente la cancelli’. Un eventuale cambiamento di regole, dunque, nel Lombardi-pensiero, non può che passare attraverso una discussione pubblica e aperta, ad esempio, in occasione degli Stati generali. Vito Crimi, insomma, è avvertito. Pure al capo reggente potrebbe toccare di doversi reinventare. Niente paura, comunque. Per tutti c’è sempre il reddito di cittadinanza. Chissà che, infatti, lo strumento nato per “abolire” la povertà, non torni utile proprio ai suoi promotori.

 

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