Politica
Omicidio Kirk, Panarari ad Affaritaliani: “Parlare di clima da BR è una forzatura propagandistica”
Panarari: “Siamo entrati in una fase in cui l’altro non è più visto come un avversario da sfidare sul piano delle idee, ma sempre più come un nemico da delegittimare o persino da annientare”

Charlie Kirk, l'attivista trumpiano ucciso (Foto Lapresse)
Panarari ad Affaritaliani: “Parlare di ‘clima da BR’ è assolutamente sbagliato e pericoloso”
Altro che confronto democratico. Oggi negli Stati Uniti – e non solo – l’avversario politico non è più un interlocutore, ma un nemico da delegittimare. Un clima tossico che ha trasformato il dibattito pubblico in uno scontro identitario sempre più radicale. A leggere le dinamiche profonde dietro l’omicidio di Charlie Kirk e la polarizzazione americana è Massimiliano Panarari - professore di Sociologia della comunicazione presso l’Università di Modena e Reggio Emilia - che ai microfoni di Affaritaliani spiega come si sia arrivati a giustificare – persino a minimizzare – un omicidio per ragioni ideologiche: “La disumanizzazione dell’altro è la deriva più pericolosa del nostro tempo”.
Prof. Panarari, cosa ci dice la reazione della sinistra americana all’omicidio di Charlie Kirk sullo stato attuale del discorso politico negli Stati Uniti? È solo polarizzazione o c’è qualcosa di più profondo?
“Sicuramente parliamo di polarizzazione, ma non solo. Da almeno un quarto di secolo gli Stati Uniti stanno vivendo un progressivo allontanamento tra le posizioni politiche, un fenomeno che rappresenta una frattura profonda rispetto alla loro storia recente. La politica americana, infatti, era in passato un esempio di convergenza bipartisan, un modello di dialogo anche per altre democrazie liberali. Oggi, invece, la distanza tra le parti è strutturale.
Non è una dinamica esclusivamente americana: la polarizzazione attraversa anche molti altri paesi occidentali. Ma è negli Stati Uniti che si è verificata una svolta decisiva, attraverso la diffusione delle guerre culturali (cultural wars). In un sistema poco ideologizzato come quello americano, il conflitto si è spostato sulle battaglie identitarie (identity politics), che hanno finito per sostituire le vecchie ideologie anche in Europa.
L'identità è diventata il terreno più fertile per la mobilitazione politica. E, proprio perché funziona così bene in termini elettorali, ha reso il compromesso quasi impossibile. L’obiettivo non è più trovare punti in comune, ma difendere la purezza del proprio gruppo, a scapito del dialogo. È qui che nasce la radicalizzazione del confronto, alimentata anche dalla crescita dei populismi: a destra con Trump, ma anche a sinistra nel Partito Democratico, dove si sono rafforzate le sue ali più estreme”.
Qual è, secondo lei, la responsabilità di Trump nel peggioramento del clima politico e culturale americano?
“Trump ha sicuramente accentuato il populismo di destra già presente nel Partito Repubblicano, rendendolo più aggressivo e spettacolare. È difficile capire davvero cosa pensi, ma ha mostrato una straordinaria abilità nel polarizzare, sfruttando i codici della comunicazione contemporanea come pochi altri. Ha trasformato le guerre culturali in strumento politico e di propaganda, utilizzando un linguaggio semplificato e spesso divisivo. Trump ha giocato (e gioca) su una connessione diretta e disintermediata con il suo elettorato, facendo dell'avversario un vero e proprio nemico.
Il trumpismo è oggi un modello per tutta l’internazionale sovranista, ed è diventato un motore della radicalizzazione del discorso pubblico, non solo negli Stati Uniti”.
In che modo l’odio politico oggi si è “spettacolarizzato”? I social media stanno solo amplificando le divisioni o stanno cambiando la natura stessa del conflitto ideologico?
“I social media funzionano in due direzioni: da un lato riflettono le divisioni già esistenti nella società, dall’altro le amplificano per finalità commerciali. Il loro obiettivo primario è mantenere alta l’attenzione dell’utente, e la polarizzazione è lo strumento perfetto per farlo. Le piattaforme alimentano bolle di filtraggio e camere dell’eco, che rafforzano l’identità del singolo e lo separano sempre più dall’altro. L’interazione si riduce a dinamiche binarie di like/dislike, approvazione o rifiuto.
È una logica dicotomica, che trasforma il confronto in scontro permanente. I social non sono solo uno specchio: sono protagonisti attivi del conflitto, e contribuiscono a mutarne la natura, rendendolo più viscerale, affettivo, divisivo”.
Molti commentatori progressisti hanno giustificato o minimizzato la morte di Kirk per via delle sue idee. Odifreddi, ad esempio, ha suscitato molte polemiche. Possiamo ancora parlare di etica pubblica condivisa, o l’altro è diventato un nemico esistenziale?
“Siamo purtroppo entrati in una fase in cui l’altro non è più visto come un avversario da sfidare sul piano delle idee, ma sempre più come un nemico da delegittimare o persino da annientare. Questo vale per ampie fasce sia a destra che a sinistra, tra cittadini, politici e commentatori. In casi estremi, come quello di cui parliamo, si arriva addirittura a giustificare la violenza, se non l’omicidio. Il concetto di etica o memoria condivisa è sempre stato complesso, specie in società segnate da forti contrapposizioni storiche. Ma oggi il problema è aggravato da una comunicazione politica che non risponde più ai bisogni reali della società, ma funge da surrogato in una crisi di rappresentanza.
Questa dinamica esaspera la polarizzazione, rendendo quasi impossibile trovare un terreno comune. L'avversario politico non è solo delegittimato: viene disumanizzato. E se la politica perde la capacità di riconoscere e considerare il punto di vista altrui, prevale una logica di scontro permanente. Una logica che alimenta chiusure identitarie e fratture profonde nel tessuto sociale”.
In Italia, alcuni esponenti della maggioranza hanno parlato di un “clima da Brigate Rosse”. Allarme realistico o esagerazione? Rischiamo davvero una simile radicalizzazione del discorso politico?
“Queste affermazioni sono sbagliate e pericolose. In un momento in cui sarebbe necessario richiamare tutti alla razionalità, alla freddezza e al dialogo, la classe dirigente esaspera i toni per motivi elettorali. Parlare di “clima da BR” è una forzatura propagandistica. Se alcuni commentatori hanno avuto reazioni gravi e fuori luogo, ciò non giustifica il paragone con la stagione del terrorismo. È un uso strumentale del linguaggio, finalizzato ad alimentare l’emergenza e ottenere consenso.
In un paese dove la campagna elettorale è continua, il rischio è che la radicalizzazione del linguaggio diventi permanente. Ma evocare fantasmi del passato senza fondamento non aiuta a ricostruire un confronto democratico, né ad affrontare le vere emergenze sociali e culturali”.