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Palazzi & potere
La Cultura parla al Palazzo/Aurelio Picca

Il suo ultimo libro, Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (Bompiani, 2020) probabilmente sarà candidato allo Strega 2021, sta di fatto che è un romanzo di una bellezza sanguinante e religiosa, salvifica e dolente e questo basta. Aurelio Picca autentico outsider della letteratura italiana rispetto al suo libro che definisce ‘’esistenzialista’’ dice del suo protagonista Alfredo Braschi: ’’Va fino in fondo alla sua esistenza. Al netto della ferocia, il Male si può attraversare con l’innocenza’’.

Picca ci racconta la sua idea di politica e di rinascita.

Ha ancora senso parlare di intellettuale engagé e dell’opera con un valore civile, politico, intrinseco o esplicito?

L’impegno politico degli scrittori è nelle loro opere, anche in quelle che sembrano più meramente estetiche, più lontane dalla politica, una politica che riguarda la convivenza civile intendo, che riguarda l’esistenza, non la politica partitica. L’opera è rivelatrice. Sono molto scettico verso gli scrittori che sono un po’ targati, etichettati, è come se avessero una tessera di partito in tasca. Chi si impegna in politica in maniera esplicita è sempre all’interno di un circuito che io definisco burocratico, non è libero. Lo scrittore dovrebbe essere libero, deve essere un eversivo, la sua forza deve essere eversiva. Deve stare un passo avanti, stare oltre, progettare, anche in una prospettiva politica. Lo scrittore eversivo è fuori dallo schema, se è nel politicamente corretto non solo è inutile ma è anche volgare.

È possibile nella società odierna?

Il problema dell’Occidente è che la cultura e i mezzi di cultura di massa sono controllati in maniera capillare, dunque lo spazio per questo tipo di atteggiamento e di libertà è irrisorio, al contrario è uno spazio che si poteva avere nella seconda metà degli anni fino Settanta, Sciascia ad esempio o Pasolini, anche se poi erano intellettuali anche protetti da un apparato politico e culturale della sinistra un tempo più operaista e poi diventata progressista. Nella società attuale, molto conformista, si aprono degli spiragli per voci eterodosse, altrimenti non ci sarebbe più neanche una fessura di differenza tra la comunicazione, quello che leggiamo sui giornali o sui libri. Le voci stonate debbono sopravvivere, si vedranno meglio in Italia dopo che faremo i conti con quello che è accaduto. Quando finirà la pandemia bisognerà organizzare una idea del mondo oltre che della nostra vita.

Non a caso, mi preparo a scrivere un pamphlet per Einaudi, una specie di ‘’contro Pinocchio’’. Si deve ricominciare da una alfabetizzazione della nostra vita, perché fino adesso c’hanno fatto pensare che anche l’ingresso nel mondo globale fosse un ingresso di grande forza, un ingresso muscolare, di controllo totale, invece questa pandemia ha mostrato la fragilità del mondo. Sembra quasi che il Novecento fosse più forte nel suo meccanicismo, nella sua chiusura dei blocchi rispetto al mondo, avesse un maggiore controllo, una maggiore forza. Ci siamo accorti che dalla sanità a Internet tutto è caduto, non per la pandemia, ma perché era già fragile da prima. Da tempo caldeggio l’idea che il Novecento non sia stato per niente il secolo breve, è stato un secolo lunghissimo. In realtà, dal Novecento non siamo mai veramente usciti. Viviamo in un lungo Novecento, perché il nuovo millennio nascerà alla fine della pandemia che ha messo a nudo il mondo, questa fragilità organica dei nostri sistemi, del nostro modello di vita, dei nostri progetti, delle nostre menti per cui è da lì che forse ripartiremo con molte nuove idee.

In che modo?

Bisognerà intendere un nuovo modello di Cultura. Adesso si parla tanto di scuola, ma in realtà la scuola è un edificio ormai sgretolato, fattosi maceria da tanti anni e tutti sanno che è soltanto un parcheggio sociale.

Perché?

Perché è stato burocratizzato, limitata la libertà dell’insegnamento. Il sistema delle classi, l’insegnante va lì un’ora, i ragazzi sono addirittura poco alfabetizzati. Bisogna reinventare un sistema, daccapo. Il potere, questa entità che sembra prendibile, ma non si sa esattamente dove sta, però agisce, deve capire che bisogna cambiare radicalmente il sistema, allora si entrerà in un’era nuova.

Cosa pensi della politica italiana?

La politica ha smarrito i doveri da troppo tempo. Il suo dovere è lasciare il proprio candidato, la propria attenzione e mettersi a servire l’Italia. Invece, vedo questo piccolo gioco al massacro molto irritante nonostante la situazione gravissima pandemica che stiamo vivendo, questo Renzi che ha tolto i ministri, poi forse li ridà, i responsabili; sono toppe in una contesto che ci sta divorando. Mi sembra uno squallore che si aggiunge, è imbarazzante parlarne. È un gioco esplicito ridicolo. E poi basta con i politici in tv, i politici non dovrebbero andare più in tv. Dovrebbero lavorare seriamente. La politica è un impegno difficile, è un dovere non è un piacere, non è un talk show. Non è esibizione di sé.

Abbiamo una piccola politica, piccoli politici che non hanno la statura di un progetto, sembrano dei portatori di acqua. Siamo allo scaricabarile, alla manfrina, non c’è una testa veramente pensante né un partito, una coalizione, né un movimento che abbia veramente un respiro potente e soprattutto progettuale ed è avvilente che questi vivano alla giornata, senza avere una prospettiva adeguata per un Paese importante. Non abbiamo una classe dirigente, un personale politico, che sappia progettare come dopo la Guerra come i De Gasperi, i La Malfa, i Pacciardi, queste persone che avevano un’idea alta della politica, anche se la politica ce lo insegna Machiavelli è il mezzo per raggiungere un fine, quindi ha sempre la ragion di stato come fine e dunque la sporcizia. Però ci si può sporcare le mani per fare piccole cose o grandi cose.

Che idea hai riguardo alla pandemia?

Anche nel mio libro, Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (Bompiani), in quella crisi esistenziale e sociale e in quel disprezzo del mondo, io ho sempre percepito che sarebbe accaduto qualcosa di epocale, lo sentivo. Non è un caso che abbia terminato di scriverlo nel dicembre del 2019. Ho avvertito che saremmo arrivati a un punto di non ritorno, a un limite. Gli uomini, l’interiorità, tutto era arrivato a un limite. Il mondo era diventato una roba troppo insopportabile quindi mi aspettavo che accadesse qualcosa, era nell’aria. Camminavamo come funamboli sull’orlo del cratere del vulcano del mio lago di Albano, pronti a precipitare. Non a caso poi siamo precipitati in una cosa del tutto inaspettata. Io immaginavo una guerra tra medio oriente e occidente, uno scollamento più riconoscibile, invece è arrivato l’invisibile.

C’è qualcosa che salveresti per questa auspicata rinascita?

Non salvo nulla. Gli slogan sono ancora quelli degli anni Settanta: la scuola, la sanità e il lavoro. Finita la pandemia si riparte da questo. Sono gli slogan disattesi per quarant’anni che ancora stanno lì ad aspettare di essere risolti. Quando finirà tutto questo ci confronteremo con queste problematiche gigantesche. La cosa sorgiva sarebbe quella di creare una nuova Costituente per l’Italia dove si fa piazza pulita dei residui dell’ideologia, del proprio orticello politico, della propria garanzia e si discute come dopo la guerra di che cosa voglia fare dell’Italia, aprendo non ai soliti noti ma cercando delle idee nuove da chi le ha davvero. La destra e la sinistra devono confrontarsi e dirsi la verità. Non credo che la bellezza salverà il mondo. Si può soltanto arginare attraverso le cose che si fanno, perché la morte e il dolore sono sempre in agguato. La bellezza è un momento fugace che noi viviamo, è come la gioia, non salva proprio niente di niente.

Anche Foscolo dice che pure le tombe saranno spazzate via e resterà solo il deserto, ma di quale bellezza parliamo? La viviamo in quel momento, è tutta una grande retorica. Usciamo dalla retorica, bisogna fare le cose, i politici devono fare. C’è sempre più una grande dicotomia tra l’apparato politico e il potere reale e bisogna trovare un accordo. Non si può giocare a una rincorsa frettolosa. La competizione frettolosa, un invenzione della globalizzazione, ha mostrato e mostra tutta la sua fragilità e ha prodotto il virus. Il virus è figlio di questa fragilità.

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