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Pensioni, il post quota 100? Ecco come si andrà in pensione dal 1° gennaio
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Pensioni, il post quota 100? Ecco come si andrà in pensione dal 1° gennaio

Riforma pensioni: mancano 120 giorni alla fine di Quota 100, la via al pensionamento anticipato tanto voluta dalla Lega di Matteo Salvini durante il primo governo Conte: lasciare il lavoro sommando 62 anni di età e 38 di contributi è possibile solo fino al 31 dicembre. Cosa accadrà dal 1 gennaio 2022? Per ora è nebbia fitta, vediamo insieme scenari e ipotesi plausibili.

Pensioni Quota 100 ha i giorni contati. Ecco che cosa accadrà dal primo gennaio 2022

Il rischio scalone col ritorno ai 67 anni di età previsti dalla riforma Fornero al momento è tutt'altro che scongiurato. La legge Fornero - si legge su www.today.it - prevede il ritiro dal lavoro a 67 anni e un’anzianità contributiva minima di anni 20. Dall'oggi al domani, se il governo non dovesse fare nulla (improbabile, ma per ora la stasi è totale) il pensionamento sarebbe accessibile solo a partire dai 67 anni di età. Si andrebbe verso scenari molto complessi. Facciamo un esempio molto semplice: dal 31 dicembre 2021, senza un’eventuale armonizzazione, per gli esclusi ci sarà un aumento secco di cinque o sei anni dei requisiti di pensionamento. Ecco un caso limite: Mario e Giovanni hanno lavorato 38 anni nella stessa azienda solo che il primo è nato nel dicembre del 1959 e il secondo nel gennaio del 1960. Mario andrà in pensione (se lo vorrà) a 62 anni, mentre Giovanni dovrà optare tra un pensionamento anticipato con 42 anni e 10 mesi nel 2026 o il pensionamento di vecchiaia con 67 anni e nove mesi, addirittura nel 2029.

Uno scalone da record, che andrebbe persino oltre quello della vecchia riforma Maroni (legge 243/2004), quando fu introdotta una differenza di tre anni lavorativi tra chi avrebbe maturato il diritto alla pensione il 31 dicembre del 2007 e chi lo avrebbe fatto il primo gennaio del 2008. In quegli anni per evitare che a circa 130mila lavoratori venisse impedito di andare in pensione subito si fece la riforma Damiano, con un aumento della spesa pensionistica "monstre", di 65 miliardi, nel decennio che seguì.

Ovviamente in qualche modo il governo interverrà sul fronte pensionistico. Non ci dovrebbe essere più la possibilità di uscita anticipata con almeno 62 anni d'età e 38 di contributi, ma è al contempo impraticabile un ritorno secco a tutte le soglie di pensionamento introdotte dalla Fornero. I tecnici del ministero dell'Economia hanno ribadito un secco no a interventi troppo invasivi e costosi come il ricorso a nuove Quote, da Quota 102 a Quota 41. E' altamente probabile che si procederà potenziando e rendendo strutturali strumenti ben noti e già esistenti, come l'Ape sociale, Opzione donna o i contratti d'espansione. Si va verso nuove forme di flessibilità in uscita.

Tutte le indiscrezioni più credibili indicano che si deciderà in primis il potenziamento dell'Ape sociale, che dovrebbe essere utilizzabile anche da altre categorie di lavoratori impegnati in attività considerate gravose o usuranti. Decisivo per l'allargamento della platea sarà lo studio che sta completando l'apposita Commissione tecnica istituita dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando. La flessibilità in uscita non può infatti che essere affiancata da misure mirate e già rodate come Opzione donna, Ape sociale o come i contratti di espansione, se si intende passare dalle parole ai fatti dopo mesi di dibattito stantìo.

Oggi come oggi con Opzione donna - scrive sempre www.today.it - le lavoratrici possono uscire dal mondo del lavoro a 35 anni netti di contribuzione e 58 anni di età anagrafica, per le subordinate, 59 anni per le lavoratrici autonome. L’Ape sociale è invece un sussidio erogato mentre si attende il raggiungimento dell’età pensionabile rivolto ai contribuenti di entrambi i sessi che hanno compiuto 63 anni e con 30-36 anni di contributi versati. Dovrebbero essere rinnovate entrambe anche per i prossimi anni, non ci sono particolari dubbi in tal senso, ma potrebbero essere anche rafforzate strutturalmente.

Il contratto di espansione invece consente di mandare in pensione su base volontaria i lavoratori fino a 5 anni prima (60 mesi) rispetto ai requisiti ordinariamente richiesti per la pensione di vecchiaia ma anche anticipata. Serve un accordo da siglare presso il Ministero del Lavoro tra azienda e sindacati, che deve contenere anche un certo numero di nuove assunzioni e deve essere finalizzato alla reindustrializzazione e riorganizzazione in ottica di sviluppo tecnologico dell’attività. L’obiettivo è quello di favorire la ristrutturazione delle imprese in crisi e il ricambio generazionale.

Il meccanismo funziona in questo modo: il dipendente che si trova a meno di cinque anni dalla pensione chiude il rapporto con l'azienda e riceve in cambio la cosiddetta indennità di accompagnamento alla pensione. Ovvero una somma che gli viene corrisposta per tredici mensilità all'anno fino al compimento dei 67 anni e alla maturazione dei requisiti per lasciare il lavoro. A pagarla sarà l'Inps ma a fornire i soldi sarà l'azienda di provenienza con cadenza mensile e garantita da una fidejussione. 

Il vantaggio per l'azienda è che dalla cifra versata al lavoratore viene sottratta la Naspi che gli dovrebbe essere corrisposta in caso di perdita del lavoro. In questo modoo un lavoratore che guadagna 36mila euro l'anno costerebbe all'azienda 100mila euro in cinque anni. Per il lavoratore c'è invece anche la possibilità di trovare un altro lavoro.

Sono numerose le ipotesi per la sostituzione di Quota 100, ad esempio circola da tempo la suggestione Quota 41 (ovvero pensionamento per chiunque abbia 41 anni di contributi a prescindere dall'età anagrafica): ma sarebbe difficilmente sostenibile per i conti pubblici: si parte da un costo di oltre 4,3 miliardi il primo anno, a salire. La suggestione resterà molto probabilmente tale. 

Le sigle sindacali puntano a trovare la quadra su una flessibilità molto ampia, chiedono in pratica un intervento complessivo sulla previdenza che parta dalle indicazioni contenute nella loro proposta unitaria, a cominciare dall'introduzione di flessibilità in uscita dopo i 62 anni d'età e dalla possibilità di pensionamento con 41 anni di contribuzione, senza però una Quota "fissa" come è stato in questi tre anni con Quota 100.

Più sostenibile sarebbe la futura divisione della quota pensione in due quote: retributiva e contributiva. Lo disse pubblicamente per primo il presidente dell'Inps, Pasquale Tridico, in un  intervento al seminario 'Pensioni, 30 anni di riforme', ben quattro mesi fa. L'ipotesi prevede in pratica un "anticipo pensionistico solo per la parte contributiva: 62/63 anni e 20 anni di contributi. Il resto (la quota retributiva) lo si ottiene a 67 anni". In pratica si potrebbe prevedere "1 anno in meno per ogni figlio per madri lavoratrici, oppure aumento del coefficiente di trasformazione corrispondentemente e 1 anno in meno per ogni 10 anni di lavori usuranti/gravosi, oppure aumento del coefficiente di trasformazione corrispondentemente (semplificando la certificazione)". Inoltre il "blocco delle aspettative di vita per coorti". L'anticipo pensionistico per la parte contributiva si potrebbe quindi dare a 62-63 anni mentre il resto (la quota retributiva) la si otterrebbe solo anni dopo, a 67 anni.  Secondo i calcoli dell'Inps l'opzione più percorribile meno costosa sarebbe proprio quella della possibilità di anticipo a 63 anni della sola quota contributiva.

Insomma, solo ipotesi per ora, che attendono di essere concretizzate. Quello che appare certo è che non vi sarà una singola Quota sullo stile di Quota 100, ma più strumenti a disposizione, diversificati e flessibili. 

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