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Politica
Trump, Biden e il populismo che non è finito
(fonte Lapresse)

Nell’anno della pandemia la conferma di Trump alla presidenza degli Stati Unti sarebbe stata un segno del destino, per fortuna non è andata così. Il presidente in carica Trump si è trovato di fronte un candidato come Biden, un signore per bene dalla storia lunga, gloriosa e tragica, che ha giocato tutta la sua candidatura semplicemente affermando l’essere totalmente “unfit” (inadatto) del presidente un carica. Ha cavalcato un po’ l’antirazzismo e la giustizia sociale, ma per il resto non ha saputo dare un messaggio forte e chiaro che prescindesse dall’antitrumpismo.

È lo stesso scenario, in una dimensione più piccola, di quello che è successo in molte democrazie europee sconvolte dall’ondata populista. La politica deve saper costruire messaggi identitari, di parte, anche divisivi, quando dall’altra parte ci sono rivali che hanno raccolto i risentimenti ben identificati di ampie fette di elettorato. Nonostante le ricette populiste quasi mai siano state risolutive, la risposta di un’opposizione che si candida a diventare maggioranza non può essere blanda e indefinita per paura di perdere pezzi. Spesso abbiamo assistito a opposizioni che hanno contestato leadership populiste e a tratti razziste, ma lo hanno fatto in maniera timida senza riconoscere che alla base del voto populista c’era e c’è sempre una malcontento vero.

Ora Biden che ha vinto, ma senza stravincere, dovrà fare due cose; uno, riempire di contenuti le sue politiche che dovranno essere discontinue rispetto a quelle di Trump e molto identificative per i democratici; due, avere la consapevolezza che la sconfitta di Trump non pone fine al trumpismo, Biden dovrà considerare anche qualche intuizione giusta dello stesso Trump, come ad esempio nel rivedere i rapporti con la Cina troppo sbilanciati a favore da quest’ultima. Altrimenti fra quattro anni saremo al punto di partenza e torneranno a vincere i facili slogan. Sul fronte Italiano abbiamo assistito a una certa superficialità sulla conoscenza del complesso, ma equilibrato, sistema politico americano con analisi di giornalisti ed editorialisti spesso banali.

Di fronte al can can sul variegato complesso di norme nei diversi stati americani, l’unica parola sensata l’ha detta il professore emerito Pasquino: “E’ il federalismo bellezza”. Gli Stati Uniti hanno consentito ad un personaggio come Trump, per molti impresentabile, di diventare presidente, ma poi lo hanno espulso dopo il primo mandato dimostrando una certa reattività del sistema sistema politico americano (erroneamente tacciato di scarsa democraticità da alcuni commentatori italici). Guardiamo a casa nostra, spesso ci vantiamo di avere un sistema politico molto rappresentativo e democratico, un sistema grazie al quale siamo passati dai politici di professione, implosi con tangentopoli, ai politici per hobby promossi da piattaforme private dando luogo alla classe politica più inadeguata della nostra storia.

Il tutto senza soluzione di continuità in termini di politiche di sviluppo e di innovazione (vedere gli ultimi dati istat) che hanno condannato l’Italia ad un ruolo sempre più marginale, insomma sono cambiati i leader e le maggioranze che però non hanno inciso sul piano inclinato nel quale siamo finiti (qui si aprirebbe un lungo discorso sul rapporto fra democrazia e sviluppo). E il leader dei trumpisti italici Salvini? Di lui ricorderemo due cose nei prossimi anni: avocare per se i pieni poteri come un Lukashenko qualunque e la mascherina pro Trump in una sorta di patetico contrappasso. E il Pd? Sempre lì nel mezzo con “la sindrome di calimero”, prima in balia delle sue divisioni (che hanno prodotto tre partiti in pochi anni: Italia Viva, Azione, Leu) ora in balia degli stati generali del M5S, quindi in attesa del duello fra i “pensatori” (populisti di maggioranza) Di Maio e Di Battista. 

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