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Il Sociale
Dall'omicidio alla laurea in filosofia: quando il carcere ti cambia in meglio
(fonte  pixerpay)

Da un duplice omicidio particolarmente efferato, in un regolamento di conti legato al traffico di droga, alla laurea in filosofia. La storia di J., un albanese tuttora detenuto per il suo passato burrascoso, smentisce tutti i luoghi comuni sul fatto che dalla criminalità organizzata non si esce vivi e che il carcere non abbia funzione rieducativa, ma serva solo a peggiorare chi ci finisce dentro.

Certo, bisogna che ci sia la ferma volontà del diretto interessato e che intorno ci siano le condizioni giuste, due elementi che nella storia di J. si ritrovano in pieno: “Quando sono entrato in carcere avevo 29 anni – racconta ad affaritaliani.it – e vedevo i mafiosi sui 50/60 anni, ma se prima mi suscitavano rispetto, in quel momento mi facevano tenerezza. Mi sembravano tristi, vuoti. Ho capito che fino ad allora avevo passato la mia vita ad inseguire sogni sbagliati e ho voluto cambiare nettamente strada. All’inizio studiare mi serviva anche per uscire dalla cella, poi mi sono appassionato e, essendo un ambizioso, ho voluto andare avanti. L’incontro in carcere con una scolaresca di Macerata e i discorsi sulla filosofia mi hanno appassionato, poi un amico mi ha regalato una copia de ‘L’apologia di Socrate’ di Platone e così ho scelto di iscrivermi a questa facoltà”.

Tre anni fa J. ha conseguito la laurea breve e proprio oggi, a Milano, discute la tesi per diventare dottore a tutti gli effetti. Un percorso reso possibile dalla convenzione tra il carcere di Bollate e l’Università Statale del capoluogo lombardo, fortemente voluta dal Prof. Stefano Simonetta, autore del libro “Utopia e carcere”, proprio in seguito all’incontro con J. “Si può ben dire che J. sia stato il nostro ‘paziente zero’: il suo racconto su quanto fosse difficile studiare in carcere, attendendo anche tre mesi per avere i libri necessari e poi usando un lumicino di notte per non disturbare i compagni di cella, mi ha spinto a creare un percorso per chi volesse cogliere l’occasione della detenzione per provare a cambiare vita”, spiega il docente.

Negli anni, il percorso ha previsto anche interessanti sovrapposizioni tra detenuti e studenti in libertà, che hanno accolto con grande interesse la possibilità di avvicinarsi al mondo del carcere, per dare una mano a chi viene solitamente dimenticato ai margini della società, considerandolo irrecuperabile. Tendenzialmente, si cerca di ignorare quale tipo di reati abbiano condotto queste persone in carcere, ma il caso specifico di J. è piuttosto noto, visto che all'epoca ebbe grande risonanza mediatica, anche per le sue caratteristiche di macabra violenza.

Questo, comunque, non ha impedito che nascesse un feeling particolare con il suo docente: “Stefano per me è un vero amico, anzi: un fratello”, spiega J. “E’ una persona veramente importante e sono molto orgoglioso di tutto quello che abbiamo fatto insieme: prima sulla mia situazione personale e poi attraverso la convenzione, uno strumento che permette a tutti coloro che davvero lo desiderano di provare a dare un senso diverso alla propria vita”.

Ma quando gli si chiede quanto questa esperienza lo abbia cambiato, J. offre una risposta per nulla scontata: “Io non sono cambiato per nulla, ma ho cambiato la mia visione del mondo. Osservando la vita da un punto di vista diverso, ho scoperto di avere delle capacità diverse da quelle che pensavo, ma le avevo già prima. Solo che prima impiegavo la mia energia per fare altre cose, cose sbagliate”.

L'odierna discussione della tesi lo emoziona, ma non lo spaventa: “Beh, l’ho scritta io… Penso di poter rispondere a qualunque domanda!”, commenta scherzosamente. Eppure, si tratta di un vero e proprio rito di passaggio, che apre una fase nuova della sua vita, anche se J. la vede in modo leggermente diverso: “La mia vita è già cambiata grazie allo studio e alle nuove porte che si sono aperte. Oggi frequento compagnie diverse dal passato e alla mia festa di laurea non ci saranno familiari, ma 50 ragazzi: tutte amicizie nuove, diverse da quelle del passato. Non so se questa laurea mi darà la possibilità di trovare un lavoro consono al mio percorso di studi, una volta che sarò libero, ma non era questo lo scopo. Ho cambiato totalmente il mio modo di vivere e questo lo posso già affermare con assoluta certezza”.

Il fatto che il “paziente zero” sia arrivato a laurearsi è certamente un messaggio molto forte anche agli altri detenuti che stanno accogliendo la possibilità offerta dalla convenzione tra carcere e Università (oltre 100 iscritti, al momento): per quanto possa averci messo di fronte a situazioni di enorme difficoltà, il destino non è ineluttabile. 

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