Lo sguardo libero
Putin non è statista: la storia e i numeri smontano la sua illusione di grandezza

Vladimir Putin
Vladimir Putin è al potere dal 1999, alternandosi tra premier e presidente: un dominio che dura da oltre un quarto di secolo, di fatto un potere a vita. Il suo patrimonio personale viene stimato da diverse fonti internazionali in circa 200 miliardi di dollari. Ma la vera eredità che lo accompagna è cupa: il leader russo è un sanguinario che ha sulla coscienza decine di migliaia di morti in Ucraina, militari e civili. Secondo stime occidentali, i soldati russi caduti superano i 250.000, mentre i civili ucraini uccisi confermati dalle Nazioni Unite sono quasi 14.000; le perdite complessive, tra morti, feriti e dispersi, avrebbero ormai superato il milione.
Eppure Putin si presenta come architetto di una nuova “maggioranza globale”. Al vertice di Tianjin della Shanghai Cooperation Organization (Sco), che si è concluso ieri, ha parlato accanto al leader cinese Xi Jinping e a quello indiano Narendra Modi. Fondata nel 2001 da Cina, Russia e quattro repubbliche centroasiatiche ex sovietiche (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan), la Sco si è allargata a India, Pakistan, Iran e Bielorussia: oggi conta dieci membri effettivi e 16 Paesi partner o osservatori, tra cui Turchia, Arabia Saudita e Mongolia. Nel complesso rappresentano oltre il 40% della popolazione mondiale e circa il 24,7% del Pil globale. La quasi totalità dei Paesi che siedono nella Sco ha tratti comuni: assenza o forte limitazione della democrazia, diritti civili compressi, predominio di élite autoritarie o di vere e proprie plutocrazie. Tra i protagonisti figurano il dittatore bielorusso Aleksandr Lukashenko e, fra i partner di dialogo, il nordcoreano Kim Jong-un, simboli di due dei regimi più repressivi contemporanei.
Gli squilibri interni restano evidenti: nel 2001 questi Stati valevano appena il 5% del Pil mondiale; oggi sono quintuplicati soprattutto grazie a Pechino. La Cina da sola supera i 19.000 miliardi di dollari di Pil (2025), nove volte la Russia, ferma poco sopra i 2.000 miliardi. Il reddito medio pro capite è simile, 13.600 dollari i cinesi e 14.400 dollari i russi, mentre l’India resta a 2.950 dollari pro capite con un’economia di poco superiore ai 4.000 miliardi, quattro volte più piccola di quella cinese. La Sco appare come un contenitore in cui tutti siedono, ma è Pechino a decidere.
In questo vuoto d’Occidente ha inciso anche Donald Trump: con i suoi dazi e la logica dell’“America First” ha minato la credibilità degli Stati Uniti, delegittimato le istituzioni internazionali e incrinato l’unità dell’alleanza atlantica. Una politica nata per rafforzare l’America ha finito per favorire l’avanzata del fronte cinese-russo.
In tale scenario Putin prova a darsi la statura di statista e, a misurarlo con i grandi della storia, il richiamo a Pericle è inevitabile. Il confronto però non regge: il presunto statista si riduce a un tiranno di provincia. In realtà lo zar del Cremlino è una pedina di Xi Jinping, che lo utilizza per legittimare il proprio progetto. La Cina segue una traiettoria che, pur contraddittoria, conserva una coerenza storica: dal comunismo di Mao al capitalismo controllato di Deng Xiaoping, fino al presente, in cui il libero mercato è piegato a sostenere il primato del partito e la potenza nazionale. Putin, invece, non ha alcuna visione: il suo è solo potere cieco e personale, un sistema mafioso-oligarchico che concentra la ricchezza in poche mani e lascia dietro di sé sangue e macerie.
Atene, culla della democrazia, aveva ben altro da proporre. Nel celebre discorso agli Ateniesi del 431 a.C., durante la guerra del Peloponneso, Pericle – come riporta Tucidide – esaltava un modello politico che, duemilacinquecento anni dopo, sembrava lo specchio degli Stati Uniti prima dell’era Trump: una comunità orgogliosa della libertà, della giustizia, del merito e della partecipazione dei cittadini, e del rifiuto di piegare la politica a interessi privati.
Così affermava Pericle: “Il nostro regime politico non emula le leggi dei vicini: siamo noi piuttosto a costituire esempio per alcuni, che ci imitano. Si chiama democrazia, perché non mira all’utile di pochi, ma dei più. Nelle questioni private, tutti sono eguali di fronte alla legge; nelle cariche pubbliche si preferisce non per censo, ma per merito: e, se uno è capace di servire lo Stato, non è impedito dalla povertà oscurando la sua fama. [...] Noi soli consideriamo chi non partecipa alla vita politica non un innocuo, ma un inutile. E giudichiamo che la felicità sia frutto della libertà, e la libertà frutto del valore”.
Atene, duemilacinquecento anni fa, poteva dire di “non invidiare i governi vicini” e di essere “esempio per altri”. La Russia di Putin e la Cina di Xi, oggi, offrono repressione interna, espansionismo – militare nel caso di Mosca, economico e politico nel caso di Pechino – e l’illusione di un nuovo ordine mondiale fondato sulla forza, sul controllo e sul privilegio di pochi. Invidiano ciò che non potranno mai creare né possedere: la libertà, bene che i russi e i cinesi meritano, ma che Putin – nato nel 1952 sotto Stalin – e Xi – nato nel 1953 sotto Mao – non hanno mai conosciuto