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Cronache
Sanità, la vergogna delle liste d’attesa: anni per un esame, inerzia di Stato

Sanità, tempi biblici per le liste d’attesa per ogni esame. La gente fa in tempo a morire

“66 giorni per avere i risultati di una biopsia”, racconta esterrefatto Giacomo ad Affaritaliani.it, “per il sistema sanitario italiano facevo prima o a morire e resuscitare, avessi avuto un problema serio. A che serve pagare tutte le tasse deliranti che pago? Mi vergogno per un sistema fallito”.

La storia di Giacomo è lo specchio del Paese, un quadro che da Nord al Sud peggiora ogni giorno se le condizioni economiche sono limitate. I poveri del Belpaese si stanno lasciando letteralmente morire, è la realtà. Nel 2021, un italiano su 10 ha rinunciato alle cure sanitarie. L’11,0% dei cittadini dichiara di non aver fatto visite ed esami per mancanza di denaro o per le difficoltà di accesso al servizio, scrive il Rapporto Bes Istat 2021.

Dopo la pandemia il quadro già disastroso degli esami clinici pubblici è totalmente deragliato, allungando i tempi e le problematiche tra mancanza di personale, risorse o soprattutto organizzazione. Tutto a fronte di una crescita nel 2020 della spesa sanitaria pari a 123.474 milioni, con un tasso di incremento del 6,7% rispetto al 2019, dicono i dati del ministero.

Mentre la politica litiga ogni giorno per questioni di mero potere oggi ci vogliono 2 anni per una mammografia, un anno per un’ecografia e una tac, lo stesso tempo per un intervento cardiologico e per uno ortopedico, per una visita diabetologica, 6 mesi per un intervento oncologico. Gli screening oncologici sono in ritardo in oltre la metà dei territori regionali. Una vergogna che grida vendetta tra interventi pubblici spesso inefficaci o inesistenti.

Tutti i dati arrivano da Cittadinanza Attiva, rete di associazioni che da anni lotta per il monitoraggio, la trasparenza e i diritti dei cittadini in Italia e sono stati raccolti sulla base di 13.748 segnalazioni del 2021 giunte al servizio PiT Salute e alle 330 sezioni territoriali del Tribunale per i diritti del malato.

È il lascito della pandemia che ha fatto avvitare un contesto già grave. Eppure i protocolli del ministero scrivono che il sistema sanitario nazionale deve garantire una prestazione in 72 ore se la situazione è urgente (codice U), entro 10 giorni per i codice a breve (codice B), entro 30 giorni e per le visite e 60 per le prestazioni diagnostiche strumentali (codice D), entro 120 se la prestazione è programmata (codice P). Ma sulla carta, con una situazione reale che cambia da regione a regione tra tentativi di piani di rientri spesso irreali.

“Ancora oggi abbiamo la necessità di recuperare milioni di prestazioni e i cittadini devono essere messi nella condizione di tornare a curarsi”, ha dichiarato Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva, “la carenza di servizi, la distanza dai luoghi di cura, tipica di alcune aree del Paese, come pure la complessità delle aree urbane e metropolitane impongono un’innovazione dei modelli organizzativi sanitari territoriali”.

Gli stessi tempi però si riducono magicamente se il paziente paga di tasca propria e va dal privato, la direzione che il sistema sembra essersi data, ma non tutti se lo possono permettere.

Secondo le analisi di Corte dei Conti e Agenas-Sant’Anna di Pisa, “per quel che riguarda la specialistica ambulatoriale si è assistito a una riduzione complessiva fra 2019 e 2020 di oltre 144,5 milioni di prestazioni per un valore di 2,1 miliardi; il volume dei ricoveri totali erogati (ordinari e in DH) nelle strutture pubbliche o private si è ridotto di circa 1.775.000 prestazioni(– 21%,14,4% di quelli urgenti e - 26% degli ordinari). Le variazioni più marcate riguardano Calabria con un – 30,6%, Puglia con – 28,1%, Basilicata con – 27,1%, Campania – 25%”.

La situazione è anche più grave nell’area oncologica. Tra 2019 e 2020 c’è stata una riduzione di circa 5100 interventi chirurgici per tumore alla mammella(-10% a livello nazionale, con punte del 30% in Calabria; circa 3000 interventi in meno per tumore al colon retto(-17,7% a livello nazionale, la riduzione maggiore nella P.A. di Trento con un -39,6%); circa 1700 interventi chirurgici in meno per tumore alla prostata (in particolare in Basilicata -41,7%, in Sardegna -39,6% e in Lombardia -31,1%).

A livello regionale le situazioni più allarmante è in Sardegna, dove la percentuale di chi non si cura sale al 18,3%, con un aumento di 6,6 punti percentuali rispetto al 2019; in Abruzzo la quota si stima pari al 13,8%; in Molise e nel Lazio la quota è pari al 13,2% con un aumento di circa 5 punti percentuali rispetto a due anni prima.

 

 

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