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Culture
"Giuditta e Oloferne" ritrovato in soffitta. Dubbi sul Caravaggio da 150 mln
Foto: LaPresse

Arte, le perplessità di un'esperta sul Caravaggio da 150 milioni

Caravaggio sì, Caravaggio no. Uso di colori che non sono amati dall'autore; espressioni corporee che non rientrano nei suoi canoni artistici; dettagli figurativi lontani dalla sua arte pittorica. Sono solo alcuni dei molti elementi che fanno mettere in dubbio ad alcuni esperti che il quadro "Giuditta e Oloferne", rintracciato casualmente a Tolosa nel 2014, sia opera di Michelangelo Merisi, ovvero Caravaggio. Una distinzione non banale se si pensa che il 27 giugno esso sara' battuto ad un'asta a Tolosa partendo da una quotazione base di 150 milioni di dollari. Il mondo degli storici dell'arte raccoglie molte adesioni alle perplessita' sollevate diverse volte su questa incerta attribuzione. Uno dei maggiori esperti e' Stefania Macioce, docente ordinario di Storia dell'Arte Moderna alla Sapienza Universita' di Roma, che ha studiato e curato parecchi volumi sulla figura e l'opera di Caravaggio e del suo ambiente, considerata tra gli esperti piu' accreditati in questo campo, motivo per cui ha avuto anche riconoscimenti internazionali. Gia' a New York, durante un suo incontro al Metropolitan Museum, Macioce aveva espresso dubbi sull'autografia caravaggesca della "Giuditta e Oloferne" Tolosa, attribuibile invece al pittore e mercante d'arte fiammingo Louis Finson, che ospito' Caravaggio nella sua bottega napoletana. Perplessita' che, non da sola, la studiosa ha poi ribadito ad un consesso internazionale a porte chiuse intitolato "Attorno a Caravaggio", nella Pinacoteca di Brera, in cui si analizzava quel dipinto con altre opere. La "Giuditta e Oloferne" di Tolosa e' di proprieta' di Eric Turquin, l'esperto francese, gia' direttore del Dipartimento maestri antichi di Sotheby's che ha seguito il restauro e che, in occasione dell'esposizione del quadro alla Galleria Colnaghi di Londra, ne ha ribadito con convinzione la paternita' caravaggesca. L'autenticita' della tela (m. 1,75 x 1,44), sarebbe tra l'altro comprovata dalla descrizione presente in due lettere del 1607 al Duca di Mantova, nel testamento in data 1617 di Louis Finson in un inventario del suo socio Abraham Vinck, redatto ad Anversa nel 1619. E qui entriamo nei dubbi. "Se, come alcuni sostengono, si trattasse di una copia da Caravaggio, cio' rientrerebbe facilmente nelle modalita' della bottega di Finson, pittore noto, ma anche mercante d'arte che, per ovvi motivi commerciali, potrebbe aver fatto eseguire da uno specialista diverse copie anche di altri autori, per poi proporle al facoltoso mercato di Bruges e Amsterdam". Il dipinto, secondo il fortunato possessore Turquin, sarebbe stato modificato solo in un secondo momento. "Ma questa e' una metodica che nessun copista avrebbe perseguito men che meno per alterare la direzione dello sguardo del personaggio principale", ha rilevato l'esperta.

 

In occasione dell'incontro milanese le analisi condotte sulla tela hanno posto in luce dati di sicuro interesse circa i pigmenti, i cambi di impostazione delle figure, risultato di una diagnostica di qualita' eccellente che ha rivelato all'interno della composizione dati assai contrastanti tanto che la lettura complessiva del quadro nelle sue fasi di realizzazione, e' risultata disomogenea tanto da produrre una difformita' di pareri. "Fui colpita in particolare", racconta Macioce, "dalla presenza di un pigmento blu, colore molto in uso nei paesi nordici a volte in sostituzione del nero, pigmento non sempre di facile reperibilita'. Caravaggio, considerava il blu un 'veleno delle tinte' e in effetti lo si riscontra solo in alcune sue opere, utilizzato dunque con parsimonia e cio' del resto e' abbastanza in linea con la sua tavolozza notoriamente basata sulle terre". Come ribadisce la storica dell'arte, "lo stile di un pittore, il suo modo comporre, il suo pensiero, hanno caratteristiche precise, anche se mutevoli nel tempo. E un po' come accade nella calligrafia che, pur cambiando e di molto nelle fasi della vita, mantiene intatti nel tempo i caratteri sorgivi". Nel caso del "bel dipinto di Tolosa", ha riconosciuto, "c'e' un fattore complessivo che lo rende problematico, troppo problematico. "Giuditta nel dipinto romano, ossia l'originale, e' consapevole dell'azione che sta attuando. La sua forza e' guidata dalla grazia divina sovrumana e dunque salvifica. Molte delle incisioni che il pittore inseriva sull'imprimitura dei dipinti nella sua produzione romana, si concentrano nel quadro proprio al centro della tela, laddove le possenti braccia dell'eroina, rese forti dall'azione della grazia, compiono l'azione. E' evidente che questo e' il punto focale della narrazione. Giuditta, presa coscienza, agisce in base a un ordine divino: tutto cio' sostiene una verita' di fede che Caravaggio spiega bene". Invece, secondo l'esperta, "la Giuditta di Tolosa, ossia quella dubbia, ha subi'to un non trascurabile cambiamento. Inizialmente, come dimostra l'analisi radiografica, aderisce al modello romano, poi pero' cambia. Perche'? Questa 'rinnovata' Giuditta contrappone perplessita' alla concentrazione leggibile della Giuditta romana. Essa non ha alcuna forza ne' la riceve, ma si limita a eseguire un'azione quasi senza partecipazione, solo perche' incalzata dalla vecchia e troppo rugosa Abra. E' uno scenario banalizzato, la ripetizione di un cliche' che, oltretutto, esclude il palese intervento della Grazia divina. Perche' Caravaggio avrebbe dovuto fare proprio qui quello che non ha mai fatto?".

E non basta. "L'attraente Giuditta del dipinto di Tolosa e' una giovane donna in abito vedovile, la cui avvenenza ripropone il topos antico della contrapposizione con la ripugnante vecchiezza della serva. Un topos tradotto qui secondo i canoni di una scena di genere. L'azione senza forza dell'eroina diviene quasi marginale e tecnicamente inspiegabile, un elemento narrativo cui si oppone lo spasmo ovviamente grottesco di Oloferne. Questi infatti e' ritratto in una verosimile contorsione data dal terribile dolore". Niente altro, rilevando che, osserva Macioce, "anche in questo caso non c'e' relazione con il quadro romano dove, invece, emerge una sapientissima ripresa del Laoconte, colto nell'attimo della morte, gia' leggibile nei suoi occhi spenti, cui si contrappone l'ultimo spasmo vitale del corpo cui si aggiunge una calcolata precisione del gesto omicida fino alla tragica decapitazione". La docente, quindi, sostiene che "c'e' una sorta di cesura tra i due dipinti che crea contesti psicologici e modalita' esecutive differenti: in uno, quello di Tolosa, la narrazione e' piu' o meno veristica; nell'altro si palesa il modo totalizzante di pensare l'azione proprio di Caravaggio. Se pur analizzato al dettaglio, il quadro di Tolosa non e' realisticamente comprensibile". E ancora: "nel dipinto di Tolosa tutti i particolari anatomici sia di Abra che di Oloferne sono delineati ad evidentiam come un'esposizione retorica, ostensiva, chiarificatrice. Si palesa una peculiarita' descrittiva, dall'elsa della spada ai merletti della manica di Giuditta, dalle infinite dettagliatissime rughe dell'inserviente alla gola deforme, fino ai denti di Oloferne e alle sue unghie sporgenti: e' un altro clima, un altro gusto, nordico appunto, come nordico era Finson. Non e' Caravaggio! E si potrebbe continuare". Infine, Stefania Macioce conclude con una considerazione: "lo Stato francese, che pure aveva dichiarato il dipinto 'tesoro nazionale', sorprendentemente ha fatto scadere il diritto di prelazione valevole trenta mesi per impedirne la vendita all'estero. Nulla vieta, dunque, al fortunato possessore di questa pregevole quanto problematica tela di venderla come opera di Caravaggio, magari al consueto emiro e perche' no, forse anche a un grande museo. Ma quello commerciale e' un altro discorso!".

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